Cinquant’anni fa la ‘primavera di Praga’-

Il 5 gennaio 1968 veniva eletto segretario del Partito comunista cecoslovacco (PCC) Alexander Dubček, che intraprese un tentativo di riforma in senso democratico che avrebbe dato vita a quella breve stagione piena di entusiasmo e ricca di speranza – non solo in Cecoslovacchia – passata alla Storia con il nome di ‘primavera di Praga’.

Alla metà degli anni Sessanta il processo di destalinizzazione, avviato con il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e ispirato da Nikita S. Chruščёv, in Cecoslovacchia procedeva più che in altri Paesi del blocco sovietico con estrema lentezza. Il segretario del PCC e presidente cecoslovacco Antonín Novotný, che lo aveva intrapreso con riluttanza nel 1963, era andato sempre più perdendo consensi. Poche erano state le riabilitazioni delle migliaia di persone che, negli anni Cinquanta, avevano subito processi politici ed epurazioni, molte delle quali erano state eminenti esponenti comunisti. In Cecoslovacchia il comunismo si era imposto nel 1948 con un colpo di Stato, ma il consenso popolare era stato vasto e partecipato, e pertanto ancor più pesantemente era stato vissuto l’irrigidimento del regime sul modello sovietico. A ciò si era unita, a metà degli anni Sessanta, una fase di recessione economica, che aveva aggravato ulteriormente lo scontento e che veniva considerata segno del fallimento delle politiche imposte da Mosca. Nel 1967 la crisi politica, sociale ed economica era ormai giunta al culmine, e la richiesta di un nuovo corso in senso riformista proveniva con sempre maggiore insistenza da più parti: da scrittori come Ludvík Vaculík, da economisti come Ota Šik, da una buona parte degli esponenti del partito, nonché da operai, studenti, contadini. Non si trattava per lo più di una ribellione al socialismo in sé, ma al socialismo come era stato applicato, all’eccessivo centralismo, alla sua burocratizzazione, all’ingerenza sovietica. Nell’ottobre del 1967, nel corso di una drammatica riunione del Comitato centrale, la linea filosovietica e centralista di Novotný fu messa in minoranza e prevalse l’ala riformista di cui Dubček, insieme a Josef Smrkovský, Oldřich Černík, Zdeněk Mlynář e altri, era uno dei maggiori rappresentanti; qualche mese più tardi, dopo ancora alcune resistenze da parte della ‘vecchia guardia’, Dubček fu eletto segretario del PCC, con il placet del segretario del PCUS Leonid I. Brežnev, che sperava così di placare i fermenti di insoddisfazione sempre più ingestibili all’interno del Paese.

Dubček – slovacco, nato nel ’21, figlio di comunisti, operaio, giovane esponente della Resistenza durante la guerra – aveva compiuto la sua formazione politica soprattutto in epoca krusceviana, trascorrendo un periodo di studio a Mosca, e nel 1966, caduto lo stalinista Karol Bacílek, era diventato segretario del Partito comunista slovacco. Rappresentava, quindi, un volto della nomenclatura poststalinista, speranzoso come altri che fosse possibile avviare una fase di critica e di riforma dall’interno del regime socialista, senza minarne i fondamenti. Il nuovo corso riformista che immediatamente egli avviò ottenne un consenso vastissimo tra la società civile interna al Paese e tra larga parte dell’opinione pubblica internazionale, e sembrò per un momento che esistesse davvero una diversa via al comunismo, la possibilità, secondo la sua celebre espressione, di «un socialismo dal volto umano».

Vennero ripristinate le libertà di stampa e di associazione, fu compiuta una riforma in senso federalista dello Stato per andare incontro alle richieste autonomiste degli slovacchi, vennero rilegittimati i partiti non comunisti e furono avviate riforme economiche. E tutto ciò sempre ribadendo il ruolo guida del partito, la vicinanza a Mosca e la fedeltà al Patto di Varsavia. Fu dalla società civile però che partirono le iniziative più ardite, e la libertà di espressione fece emergere posizioni ancor più radicali. Già il 22 febbraio, in occasione del 20° anniversario della presa del potere da parte del PCC, emersero le prime tensioni con Brežnev e gli altri Paesi del blocco sovietico; nel marzo, Novotný – il fedele uomo di Mosca – fu costretto su pressione popolare a lasciare la presidenza, sostituito da Ludvík Svoboda; in aprile, venne approvato il Programma d’azione che prevedeva tra le altre cose un ampio processo di riabilitazione delle vittime dello stalinismo e Černík saliva a capo del governo. Intanto la protesta cresceva tra gli studenti e nelle fabbriche, in cui si organizzavano comitati di autogestione, e nel maggio uscì il Manifesto delle duemila parole, redatto da Vaculík e sottoscritto da migliaia di intellettuali che non solo prendeva posizione contro il socialismo in versione sovietica, ma criticava lo stesso piano messo in atto dai riformisti, considerato ancora troppo ambiguo e moderato. Era ormai chiaro che il nuovo governo riformista non era più in grado di controllare la situazione, e i Paesi del blocco sovietico in quello stesso mese iniziarono le manovre militari, mentre tra luglio e agosto si moltiplicarono i colloqui e gli ultimatum, anche perché la Cecoslovacchia stava ricevendo sostegno da parte di altri Paesi socialisti, la Iugoslavia ‘non allineata’ di Tito e la Romania di Nicolae Ceaușescu, nonché la solidarietà dei leader comunisti dei Paesi del blocco occidentale, come il segretario del Partito comunista italiano Luigi Longo.

Infine – è storia nota – il 20 agosto le truppe dei Paesi del Patto di Varsavia, esclusa la Romania, invasero il Paese, ponendo termine a un esperimento il cui ultimo, drammatico atto simbolico fu quello dello studente Jan Palach che nel gennaio del 1969 si diede fuoco nella piazza Venceslao in un gesto di estrema protesta contro l’occupazione e la ‘normalizzazione’ imposta da Mosca. Dubček, costretto alle dimissioni e rapidamente emarginato, insieme agli altri protagonisti della ‘primavera’ dalla vita politica, tornò a fare l’operaio, fino a quando, nel 1989, fu eletto presidente dell’Assemblea federale cecoslovacca. Morì nel 1992.

 

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