di Angelo Panebianco
In passato i piani di guerra approntati dagli Stati Maggiori si rivelavano spesso un fallimento. Si basavano sull’erronea presunzione che la guerra futura sarebbe stata uguale alla precedente. La politica fa errori simili. Per esempio, in Italia si continua a usare il termine «schieramento» (di destra e di sinistra) per prefigurare la dislocazione delle forze politiche alle prossime elezioni e dopo. La parola «schieramento» dovrebbe invece essere abbandonata. Essa vale solo per l’età ormai conclusa in cui erano in vigore, per le elezioni nazionali, leggi maggioritarie o quasi- maggioritarie. Nella (luminosa?) epoca della proporzionale che ci si dischiude davanti non ci saranno schieramenti: varrà il principio «ciascuno per sé». Già si è visto cosa è accaduto in questa legislatura. Nonostante l’alleanza elettorale fra la Lega e le altre forze del centrodestra (alleanza imposta dalla presenza di una quota di collegi uninominali che verrà presto cancellata), la Lega, fatte le elezioni, ha rotto subito quell’alleanza e ha fatto il governo con i Cinque Stelle (i quali, davanti agli elettori, si erano dichiarati contro tutti). Poi, caduto il primo governo Conte, si è realizzata un’alleanza fra Cinque Stelle e Pd senza bisogno di chiedere cosa ne pensassero gli elettori. Tutto ciò ha anticipato il futuro. Gli elettori saranno chiamati a votare singoli partiti, punto e basta. I governi si formeranno e si sfasceranno in Parlamento. Non ci sarà nessuno schieramento precostituito.
P erché se ne continua a parlare dunque? Un po’ per pigrizia mentale, un po’ perché gli schieramenti, effettivamente, continuano ad esistere sul piano locale e regionale (per effetto delle leggi elettorali lì in vigore) e un po’, infine, perché serve ai giochi politici del momento. Sappiamo tutti che ciascuno deve fare il proprio mestiere e che pertanto le affermazioni di un uomo politico non possono avere lo stesso significato di quelle di un commentatore: esse servono a mandare messaggi agli interlocutori in vista di un qualche disegno, non è il loro compito stabilire il vero e il falso. Non meraviglia quindi che un uomo abile e navigato come il ministro Dario Franceschini dichiari ( Corriere , 29 gennaio) che in futuro avremo sia la proporzionale che il bipolarismo (il confronto fra due schieramenti) dal momento che, pur con la proporzionale, il bipolarismo c’era ai tempi della Dc e del Pci. Franceschini sa benissimo che non ci sono più le condizioni di allora (niente guerra fredda, niente conventio ad excludendum , niente partiti di massa radicati nella società). Che il bipolarismo sopravviva in regime di proporzionale è altamente improbabile. Non bisogna quindi domandarsi come si ricomporranno le forze oggi in campo ma, piuttosto, come andranno a scomporsi.
A destra, si intravvedono già le avvisaglie di un duello all’ultimo voto fra la Lega (che ha forse raggiunto il suo punto di massima espansione) e Fratelli d’Italia, partito in ascesa e guidato da una leader capace. Quando si infrange il mito dell’invincibilità, come è accaduto a Matteo Salvini in Emilia-Romagna, la strada diventa improvvisamente in salita. Forse la sconfitta potrebbe essere riassorbita. Ma c’è in gioco anche qualcosa di più importante. La calata leghista al Sud, forse, non è destinata a riscuotere quei duraturi successi che molti si attendevano. Può essere che sia invece proprio il partito di Giorgia Meloni, nel prossimo futuro, a riscuotere al Sud i maggiori consensi. Magari anche intercettando grandi quantità di voti in uscita dai Cinque Stelle. Se così fosse, la Lega si troverebbe a subire una competizione insidiosa da parte di un estremismo ideologicamente più strutturato e con un volto ultra-nazionalista forse più credibile. Si aggiunga che se l’avventura meridionale di Salvini dovesse avere termine, è possibile che quella parte del Nord produttivo che vota Lega ma che ha bisogno dell’Europa e dell’euro rimetta in riga il leader, lo obblighi a cambiare la sua politica europea. In questo caso, la bandiera dell’antieuropeismo duro e puro rimarrebbe in mano alla Meloni, i cui nuovi consensi, presumibilmente, non arriverebbero tanto dal mondo produttivo quanto da ceti impiegatizi lungo la Penisola e dai focolai del disagio sociale meridionale.
Scomposizioni a destra ma, plausibilmente, scomposizioni anche a sinistra. L’errore più grave che potrebbe commettere il Pd nazionale sarebbe quello di scambiare la vittoria di Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna per una vittoria della «Ditta» (copyright Pier Luigi Bersani), ossia quell’insieme di uomini e donne provenienti dall’esperienza comunista che per anni e anni hanno assicurato il legame fra quel passato e il presente lungo tutte le tappe della storia post-comunista (nelle sue varie denominazioni: Pds, Ds, Pd). Quella di Bonaccini è stata la vittoria della buona amministrazione, non della Ditta.
Oggi le prospettive del Pd sono nebulose. Non pare che esso abbia la volontà di uscire dall’ambiguità, di scegliere fra le sue due anime: il populismo, che spinge a inseguire le sollecitazioni delle piazze (per esempio in materia di immigrazione, come ha scritto Goffredo Buccini sul Corriere del 31 gennaio) e la buona amministrazione (il cosidetto riformismo). L’ambiguità può essere po-liticamente utile ma può anche alimentare spinte centrifughe e divisioni paralizzanti. In mezzo a tanta confusione, a un certo punto, qualcuno ha persino immaginato l’attuale premier Giuseppe Conte nel ruolo che, nello schieramento di sinistra di un tempo, fu di Romano Prodi.
Si parla di un nuovo contenitore (una nuova denominazione?) aperto ad apporti esterni di varia natura e utile per tentare un’alleanza organica con i Cinque Stelle. La parte dei parlamentari grillini che non sa dove andare potrebbe starci ma un’altra parte, probabilmente, giudicherebbe quell’alleanza come un abbraccio mortale. Inoltre, difficilmente non ci sarebbero contraccolpi dentro il Pd. C’è già stata la scissione di Matteo Renzi. Tenuto conto che la proporzionale non ostacola le scissioni e spesso le rende convenienti, il Pd potrebbe subire altri abbandoni.
Schieramenti impossibili, scomposizioni probabili. Nell’attesa che si formi un centro in grado di stabilizzare la democrazia. Nulla, peraltro, garantisce che l’attesa venga alla fine premiata.