di Gad Lerner
Nel torneo Sei Nazioni il Galles ha appena finito di suonarle 42-0 ai rugbisti azzurri e Umberto Bossi, seduto di fronte alla tv nella modesta cucina di casa non può che compiacersene: «Ammiro il Galles, piccola ma gloriosa nazione, come del resto ammiro la Scozia e la Catalogna. Sono popoli che aspirano all’autonomia come noi padani». Aleggia l’odore del sigaro toscano. Chiede alla moglie Manuela di fargli un altro caffè. Non si muove facilmente dalla poltrona dopo la brutta caduta di un anno fa, ma la mente è lucida, l’eloquio biascicato ma non una parola è scelta a caso.
Se continua a fissare il televisore, passato a trasmettere calcio, è solo per fingere distacco dall’argomento che lo opprime e per cui ha accettato di ricevermi come ai vecchi tempi: il futuro incerto della Lega da lui fondata come partito prima lombardo e poi padano, non certo nazionalista.
Per che squadra tifa? «Adesso per l’Atalanta. Ma anche per il Milan e prima ho tifato per l’Inter di Suarez e Herrera. Squadre lombarde, della mia terra!». È di una bellezza struggente il tramonto che arrossa le acque della costa orientale del Lago Maggiore venendo su da Varese a Gemonio, subito prima di Laveno, Intra e Luino. Pazienza se per salire fino al suo eremo indipendentista, bisognoso di restauri, tocca percorrere via Roma e via Garibaldi: «Lombardo è il paesaggio che mi porto nel cuore, dalla finestra della mia camera da letto vedo le montagne svizzere». Davvero il cambio al vertice della Lega non poteva dar luogo a un contrasto più vistoso: dal senatùr Bossi a Salvini che ha optato per un collegio senatoriale calabrese. Qui a Gemonio ci sono i cartelli che invitano al bel mulino-museo Salvini, dedicato a Innocente Salvini, pittore di paesaggi delle valli varesotte. Provo a chiedergli se sia questo il Salvini che preferiscono, ma s’intromette premurosa Manuela: «Non scriva cose del genere, la situazione è delicata e va affrontata politicamente».
Da venerdì scorso la Lega Nord, della quale per statuto lei è presidente a vita, al posto di un segretario si ritrova un commissario: Igor Iezzi. Lo conosce?
«Solo di vista. È un ragazzo, questo il suo limite. Spero non significhi che il partito da me fondato non deve fare più niente. Capisco che il commissario serva a dare garanzie ai magistrati, questa Lega Nord non può sparire del tutto perché deve pagare i soldi. Ma il problema dell’autonomia del Nord resta più aperto che mai, non sa in quanti mi vengono a trovare dal Veneto e dalla Lombardia, e io cerco di convincerli a restare nella Lega perché è qui che dobbiamo dare battaglia. Non penso affatto che sia finita».
Dopo l’ultimo congresso federale in cui lei, applaudito ma inascoltato, ha rilanciato la questione settentrionale, ora il nuovo statuto consente la doppia iscrizione. Lei, Bossi, prenderà anche la tessera della Lega per Salvini premier?
«Al Senato mi hanno chiesto di quale partito ero membro e io gli ho risposto che sono della Lega Nord.
Ma la sigla non era prevista, a insistere sarei finito nel gruppo misto. Allora ho aderito al gruppo Lega per Salvini premier, per forza di cose. Ma una tessera nazionalista mica fa per me. Ci sono tanti militanti che non approverebbero.
Molti sono già andati via, attirati dal movimento Grande Nord di Roberto Bernardelli. Sbagliano prospettiva. Soffrono perché la Lega ha tolto la parola al Nord. Ma non è finito il mondo. Un recupero è possibile».
Cambiando leader?
«Evidentemente anche cambiando leadership. Ma io ho fiducia che, essendo mutata la situazione, anche le persone possano correggersi e cambiare».
La sconfitta in Emilia-Romagna era nell’ordine delle cose possibili. Mi ha fatto più impressione che la Lega di Salvini in Calabria sia rimasta appaiata a Forza Italia e a Fratelli d’Italia. La svolta nazionalista non doveva servire a sfondare al Sud?
«È vero. Ma mi lasci dire che con la linea nazionalista neanche in Emilia c’era da pensare di vincere.
Bonaccini è stato bravo ad agganciarsi per tempo al treno di Lombardia e Veneto, con il progetto del regionalismo differenziato. La Lega nazionalista invece gli ha concesso uno spazio che doveva essere il suo. Come non capire che il popolo emiliano vuole raggiungere il traguardo dell’autonomia, sul modello di Zaia e Fontana. Era la prima cosa da offrirgli. Altro che prima gli italiani, per quello basta e avanza la destra nazionalista. Ora spero sia chiaro: se trasferisci la Lega al Sud, poi diventa più difficile chiedere il voto alla Lombardia, al Veneto e all’Emilia».
Così si apre la strada alla Meloni?
«Certo, ci vuole buon senso. La gente si chiede: la Lega fa ancora gli interessi del Nord, sì o no? Basta fare due conti. Più della metà degli elettori italiani vive sopra il Po. Se perdiamo questi, è finita. La priorità è batterci per l’autonomia, e per raggiungerla l’esperienza insegna che serve mantenere anche buoni rapporti con la sinistra, più sensibile della destra a questo tema».
Dovreste cambiare alleati?
«Non dico questo. Dico solo che per raggiungere l’autonomia bisogna avere rapporti anche con la sinistra. In Europa è la sinistra che ha concesso spazi all’autonomia. Se è avvenuto in Catalogna, perché non in Lombardia? E poi nell’Italia meridionale l’elettorato si divide per clientele, come facciamo a credere che la Lega nazionalista diventi primo partito del Sud? E’ stato un errore provarci. Le ultime elezioni ci dicono che la strategia di andare al Sud è entrata in crisi. Torniamo indietro fin che siamo in tempo. Sono convinto che l’autonomia è una meta che raggiungeremo, per questo tengo duro».
Salvini però ha scelto l’estrema destra anche nelle alleanze in Europa. Marine Le Pen, i tedeschi di Alternative fur Deutschland, il sovranista ungherese Orbàn…
«Cercava una legittimazione internazionale. Quel genere di alleanze ti può aiutare momentaneamente a prendere qualche voto in più, ma poi nessuno li vuole, non sono spendibili per conquistare dei risultati. Gli alleati ti devono servire per governare, se scegli l’estrema destra dopo è difficile trovare qualcuno che fa gli accordi con te. E poi, me lo lasci dire: mio nonno era socialista, io sono e resto antifascista. Su questo non si transige».
Scusi se mi permetto, ma vederla qui, isolato e affaticato, mi ricorda il destino di un altro leader della Prima Repubblica: Bettino Craxi. Gemonio è la sua Hammamet?
«Mi hanno messo ai margini, è vero, ma io posso e voglio rientrare. Mi batterò finché ho forze per la libertà e l’autonomia dei nostri popoli.
Ricevo pressioni enormi da altri partiti che vorrebbero farmi passare dalla loro parte. Ma io sono nato e morirò leghista».
Con Craxi aveva rapporti?
«Non c’è mai stato un vero contatto personale. Craxi mi mandava i suoi emissari in regione Lombardia. Il messaggio era: se mi dai i voti in Parlamento a Roma, il federalismo te lo procuro io. Ma per quanto avessi fretta, non ci sono cascato.
Era una scorciatoia con la trappola in fondo».
Dopo la sconfitta elettorale della settimana scorsa, crede davvero che nella Lega si possa riaprire una discussione interna?
«Guai se non succedesse. La base del Nord è in fermento. Bisogna che qualcuno trovi il coraggio di darle voce perché altrimenti se ne andranno via in tanti. Su di me possono contare».
Salvini però è riuscito a tenere il partito compatto anche dopo l’uscita dal governo. Fra poco ci sarà il ricambio delle presidenze nelle commissioni parlamentari, la Lega sarà tagliata fuori dalla stagione delle nomine. Sarà quello il momento?
«Macché, non c’entra. I posti di potere in mano alla Lega a Roma sono pochi, dunque non ci sarà da recriminare in proposito. Diciamo che se Salvini avesse vinto le elezioni sarebbe riuscito a tenere tutto assieme. Ma ora si apre di nuovo la partita dell’autonomia».
A parte i suoi fedelissimi leghisti della prima ora, Bossi, lei ha modo di confrontarsi con lo stato maggiore del nuovo corso? Con Giancarlo Giorgetti, ad esempio?
«Giorgetti mi viene a trovare, ma il suo ruolo ora è di indirizzare Salvini. Poi, si sa, ci sono altri che attaccano il carro dove ordina il padrone. Ma io non sono mai definitivo. Sono convinto che la gente può sempre migliorare».
Viene a salutarci in cucina Sirio, 23 anni, l’ultimogenito di Umberto e Manuela. Studia economia. È rimasto invece seduto discretamente in disparte, all’ingresso, Giambattista Macchi, uno dei due assistenti che la Lega fornisce ancora a sostegno del suo fondatore. Che per muoversi ormai ha bisogno della sedia a rotelle, ma resta indomito e saluta con il pugno, circondato dai cimeli delle sue stagioni di gloria: ritratti e statue in costume da guerriero medievale, il Sole delle Alpi, foto di Pontida. Provo a chiedergli ancora se da lui Salvini abbia ereditato qualcos’altro, a parte il linguaggio urlato della provocazione. Ma Bossi è rimasto un politico troppo navigato, neanche fa finta di rispondermi.
È Manuela, invece, che vuole aggiungere un ricordo che le sta a cuore: «Conosce la storia di mio nonno paterno, Calogero Marrone, venuto su da Favara in Sicilia per dirigere l’anagrafe di Varese sotto il fascismo? Scoprirono che falsificava i documenti per aiutare a fuggire gli ebrei e gli antifascisti perseguitati. Per questo lo deportarono nel lager di Dachau dove trovò la morte nel 1945. Ora lo Yad Vashem di Gerusalemme lo ha insignito del titolo di Giusto fra le Nazioni».