Leonida Repaci (Palmi, 1898 – Marina di Pietrasanta, 1985), narratore e poeta, fondatore del Premio Viareggio, antifascista inflessibile e tra i primi a organizzare nel settembre del 1943 la lotta contro i nazifascisti a Roma, nel 1950 invitò Cesare Pavese ad aderire al Convegno Nazionale “La Resistenza e la cultura italiana”, in programma al Palazzo Ducale di Venezia dal 22 al 24 aprile. Tra i promotori dell’appuntamento, voluto da Repaci e da Franco Antonicelli per affermare “la fedeltà storica ai motivi, non contingenti e non limitati, della Resistenza”, c’erano, tra gli altri, Corrado Alvaro, Piero Calamandrei, Vittorio De Sica, Ennio Flaiano, Goffredo Petrassi, Gaetano Salvemini, Alberto Savinio, Ignazio Silone, Renata Viganò, Luchino Visconti, Cesare Zavattini.

Pavese rispose all’invito dello scrittore calabrese con un biglietto inviato da Torino, il 20 aprile. “Caro Repaci”, gli scrisse, “sono lieto e fiero di dare la mia adesione al Convegno nazionale della Resistenza e cultura italiana. È evidente che l’avvenire nostro sta tutto qui, in questi operanti ricordi. Ripenso a Leone Ginzburg e Giaime Pintor, miei amici, e mi chiedo se in avvenire sapremo essere degni di loro e degli altri, di tutti gli altri. Coi migliori auguri. Cesare Pavese”.

La breve e poco nota lettera di Pavese, intrisa di rimpianto per gli amici caduti nella Resistenza, come Ginzburg e Pintor, era stata citata in un libro del 2003 di Santino Salerno e ora è pubblicata nel volume Mio caro Leonida… (Lino Pellegrini Editore, pagine 293, euro 18) di Natale Pace, già autore di alcuni saggi dedicati a Repaci. Pace ha focalizzato l’attenzione sull’attività di Repaci su più livelli. Si va da una polemica sull’edizione integrale dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci alle corrispondenze con Luigi Longo, Maria Bellonci, Fortunato Seminara, Maria Fida Moro; fino al convegno veneziano del 1950, caduto oggi davvero nell’oblio, e a quell’adesione di Pavese, che peraltro non vi prese parte di persona.

L’intellettuale piemontese, nei mesi che precedettero il suicidio del 27 agosto 1950, stava vivendo una profonda crisi esistenziale, non solo per i suoi amori disperati. La lacerazione era grande pure sul piano dell’impegno politico. “Il nuovo ordine, promesso dalla Resistenza”, ha scritto Davide Lajolo ne Il vizio assurdo, “non è apparso e Pavese (…) non ha tempo d’aspettare”. Per queste ragioni il biglietto a Repaci, soprattutto quel richiamo a Pintor e a Ginzburg e il timore di non sapere esserne degni, assume un rilievo non da poco per quanto accadrà in agosto, quando si toglierà la vita con i barbiturici in una stanza dell’albergo Roma di Torino.

A Ginzburg aveva pensato il primo luglio dello stesso 1950. Quel giorno regalò all’attrice americana Constance Dowling, della quale era innamorato, la copia di Moby Dick di Melville che aveva dato a Leone Ginzburg il 10 giugno del 1932, e che aveva riavuto poi da Natalia Ginzburg, la moglie di Leone, dopo la morte di questi nel 1944 nel carcere di Regina Coeli. Forse sperando di trattenerla accanto a lui, le diede dunque la copia del libro. Sotto alla dedica per Leone, che recitava “offro gratis a Leone Ginzburg”, appuntò l’altra. Scrisse in inglese, in un’estrema illusione e con un sussulto di passione: “Leone è morto mio unico amico. Non vorresti prendere il suo posto, Connie?”. Lei non lo prese, salvo uccidersi a sua volta, qualche anno dopo, come si era ucciso Pavese, con i barbiturici.