Oscar Wilde Un fantasma a Napoli

Braccato dalla stampa, celebre vittima dell’omofobia l’autore irlandese trascorse gli ultimi anni della vita in Italia. Ma non fu sempre una piacevole vacanza
di Maurizio Fiorino
«Milord, nun vo’ vedè nisciuno!». Sembrerebbe il momento cruciale di un film napoletano. E forse un po’ potrebbe esserlo. Con queste parole, Eugenio Zaniboni — passato poi alla storia come il traduttore del Viaggio in Italia di Goethe — fu rimbalzato dalla custode del villino che Oscar Wilde aveva preso in affitto a Posillipo. A incontrarlo, alla fine, Zaniboni ci riuscì. E non fu del tutto gentile. Scriverà di Wilde come «una massa bianca che si dirigeva affettuosamente verso di me e quel saluto che si annunziava troppo cordiale — vi giuro, o lettori — non mi produsse un grande piacere!».
Quanto Wilde, di cui quest’anno ricorre il centoventesimo anniversario della morte, amasse l’Italia, l’ha scritto finalmente nero su bianco Renato Miracco, stimato critico e curatore d’arte, che già negli anni ’80 si era messo a raccontare in un libro tutto ciò che aveva scovato sul soggiorno napoletano dell’autore irlandese. «Ma il pensiero, in questi anni, ha continuato ad essere stranamente presente nella mia testa. C’era qualcosa di non detto, che non riuscivo ad afferrare» dichiara oggi dal suo studio a Washington. Quel qualcosa è diventato Oscar Wilde. Il sogno italiano (1875-1900) , pubblicato da Colonnese.
«È risaputo che Wilde avesse trascorso buona parte dell’ultimo periodo della sua esistenza nel Sud Italia, ma quasi tutti i libri che parlano di lui sembrano non prendere in considerazione quel periodo che, a mio avviso, vale più degli anni in cui era famoso» continua Miracco. Negli Stati Uniti, dove il libro è già stato pubblicato, ha incassato il plauso di due pezzi grossi come lo scrittore Edmund White e il Pulitzer Philip Kennicott, autore della prefazione. «Quando, qualche anno fa, sono andato a trovare i miei genitori a Napoli, ho deciso di fare il giro di tutte le residenze italiane di Wilde e di iniziare le ricerche nelle varie biblioteche. Molte delle corrispondenze erano state pubblicate in ordine sparso, e soprattutto non erano state mai confrontate con articoli e fotografie dell’epoca» spiega.
Il saggio su Wilde va ben oltre il periodo italiano dell’autore del De profundis . C’è la storia, terribile, di come l’omosessualità era vista nell’Inghilterra del XIX secolo. Per ricostruirne le tappe, Miracco ha usato le trascrizioni agghiaccianti di arresti e condanne dei casellari giudiziari dell’epoca, scoprendo che «i sodomiti erano accomunati nello stesso zoo sessuale di esibizionisti, pedofili e omicidi sessuali ». Nel migliore dei casi, si legge, venivano visti come «pervertiti o devianti sociali».
Va da sé che dopo lo storico verdetto di condanna a Wilde a due anni di reclusione, molti omosessuali inglesi lasciarono il Paese e lo stesso autore, una volta uscito di galera, piuttosto che ritirarsi a vita privata nelle campagne inglesi come gli fu consigliato, decise di venirsene in Italia. «Non posso restare nel Nord Europa: il clima mi uccide. Non è la perversità ma l’infelicità che mi fa andare verso il Sud, anche se il piacere, sono lieto di dirlo, mi circonda da ogni parte» scrisse.
Napoli all’epoca era una sorta di porto franco. Luogo di confine della civiltà greca, romana ed egizia. Per non attirare l’attenzione dei curiosi, Wilde scelse di chiamarsi Sebastian Melmoth e tutto filò in maniera più o meno liscia fin quando un reporter a spasso per le vie di Posillipo non lo riconobbe e, il giorno dopo, scrisse di «un uomo obeso dalle guance flaccide, l’aspetto disfatto ma di grande distinzione e, accanto a lui, un bel giovane biondo», ovvero Lord Douglas, il ragazzo che Wilde amerà fino alla fine dei suoi giorni.
Quel che fa più effetto, oggi, è la crudele accoglienza riservatagli dal giornalismo locale. «Qualcuno ha annunziato che in Napoli si trovi il decadente inglese che diede così larga copia di argomenti ai cronisti alcuni anni or sono a proposito di un processo ripugnante. Quasi quasi vi era di che ringraziare i giudici britannici per la loro severità in fatto d’infligger pene a gli odiosamente pervertiti!» scrisse Il Mattino . Nulla di eccezionalmente strano, sostiene oggi Miracco. «Tutto ciò rientrava nel movimento contro Wilde che attraversava l’Italia in quel periodo. Appena tre anni dopo la morte, Paolo Valera scrisse che l’oscarwildismo era la religione degli invertiti».
L’ostilità dell’intellighenzia partenopea, in netto contrasto con la bellezza dei «monelli raccolti nella suburra napoletana», spingeranno Wilde a fuggire prima a Capri — dove, al suo ingresso nella hall dell’Hotel Quisisana tutti gli inglesi si alzarono dai loro tavoli e minacciarono di lasciare la sala — poi in Sicilia, dove conobbe l’ormai anziano fotografo Barone von Gloenden, celebre per i suoi ritratti a giovanissimi ragazzi nudi.
Insomma non furono mesi facili quelli trascorsi in giro per l’Italia. «Sto diventando piuttosto bravo nella mia conversazione. Credo di parlare un misto tra Dante e il peggior gergo moderno» scrisse in una lettera.
Non gli piacque il Duomo di Milano, «un orribile fallimento mostruoso e antiartistico» e si innamorò di Palermo, «la città più bella del mondo, i limoneti e gli aranceti erano di una perfezione così totale che sono ridiventato preraffaellita ». In un caffè, ridotto ormai in povertà estrema, fu riconosciuto da un gruppo di studenti. «Con loro grande delizia ho negato sempre la mia identità. Quando mi è stato chiesto il mio nome, dissi che ogni uomo ha soltanto un nome. Mi chiesero quale fosse. Io, fu la mia risposta».
Tra gli aneddoti più divertenti c’è un’intervista fatta in un caffè napoletano. «Vuotata quasi mezza dozzina di bicchierini di cognac, il Wilde volle andare via» scrive il giornalista. «Permettete che paghi, gli dissi, e feci tintinnare una moneta sul marmo del tavolino per chiamare il cameriere». Allora Oscar Wilde, senza scomporsi, rispose che «quando si chiamano, i camerieri non vengono mai: bisogna andar via, senz’altro vi correranno subito tutti dietro e pagherete più presto». E così accadde.
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