Turismo , dobbiamo tornare alla dimensione classica.

 

La sfida Non dobbiamo puntare agli ospiti delle grandi navi che invadono Venezia, ma agli «uomini universali» che amano cultura e natura, raccogliendo le sfide digitali
C i vollero due anni a Goethe per compiere il suo viaggio in Italia e scrivere la più famosa celebrazione di una generazione di «uomini universali» che furono i primi turisti dell’età moderna. Dopo duecento anni, grazie a tecnologie che rendono possibile ad individui e territori di incontrarsi senza intermediazioni, torna l’idea del viaggio come esperienza in grado di coinvolgere e far crescere. Ed entra in crisi quella di un turismo diventato settore industriale fondato su economie di scala e consumi di massa. Potrebbe essere questa l’occasione che l’Italia aspettava per potersi riprendere non solo la leadership in un mercato in crescita, ma anche un ruolo importante in un secolo fondato sulla conoscenza. Ruolo che abbiamo perso per la sonnacchiosa presunzione di essere al centro di un mondo i cui centri si stavano, invece, moltiplicando.
Per decenni il mondo delle vacanze è stato dominato da multinazionali proprietarie di agenzie di viaggio, alberghi, aerei e navi. Visitatori e territori ne subivano le scelte scegliendo tra pacchetti completi. Il declino dell’Italia – nel periodo in cui il numero di turisti internazionali triplicava – è dipeso da questo motivo: il Paese con il maggior numero di siti Unesco non ha mai pensato di dover preoccuparsi di una dimensione artigianale che ne era elemento distintivo e limite. Ciò ci ha fatto perdere quote di mercato (dal 10% nel 1990 quando eravamo al primo posto nella classifica dell’Organizzazione Mondiale del Turismo; al 5% oggi che siamo scivolati al quinto). Ridotto la parte di spesa che rimane nei luoghi della visita a vantaggio dell’operatore che controlla il turista; concentrato le presenze in pochi luoghi e in poche settimane scatenando, in alcuni casi (l’ultimo in Liguria), conflitti tra turisti e comunità locali.

La novità sono piattaforme digitali globali che ci portano in un mondo nel quale gli individui organizzano da soli il proprio viaggio e i singoli fornitori di ospitalità si propongono. Una mutazione non diversa da quella di altri settori industriali investiti da rivoluzioni che impongono prodotti sempre più personalizzati. Questo non è, però, un processo privo di contraddizioni perché le piattaforme non sono neutre e possono diventare intermediari più potenti di quelli che sostituiscono, utilizzando quantità di dati imponenti. E, spesso, non sono neppure indipendenti, perché le multinazionali intelligenti si adattano al nuovo contesto diventando esse stesse piattaforma.

E, tuttavia, la novità corrode le rendite e a Parigi il Comune ha dedicato un laboratorio che incuba decine di imprese dedicate a ridefinire il turismo. Sul lato dell’offerta, tornano centrali i territori che devono trovare una specializzazione intelligente. Come Bilbao che ha dimostrato – con musei di nuova concezione – che puoi essere capitale culturale, non solo se si hanno millenni di storia; o Taiwan che si reinventa come destinazione di turismo sportivo (cicloturismo). Come città che si vendono con efficacia perché si sono completamente liberate dalle automobili; o villaggi scampati allo spopolamento per aver scelto di distinguersi vietando l’utilizzo di qualsiasi telefono cellulare.

Per l’Italia, la scelta distintiva è naturale. Non subire più le scelte degli operatori che portano a piazza San Marco i grattacieli galleggianti da cui sciamano gruppi di turisti sfiancati alla ricerca di un gelato. Riportare il turista a quella dimensione classica – fatta di simboli della conoscenza e monumenti naturali come le Dolomiti o la Costiera amalfitana – che dopo duecento anni potrebbe ridiventare il completamento di molteplici percorsi di formazione.

Gli ultimi anni hanno visto già un’inversione di tendenza. L’uscita di Egitto e Turchia dal mercato ha favorito il nostro Sud; l’Alto Adige ha conquistato velocemente una leadership nel turismo invernale; nel Piemonte collegando stili di vita e cibo hanno inventato nuove nicchie. Se però volessimo fare della cultura il vettore attraverso il quale l’Italia recupera un ruolo centrale, c’è bisogno di una strategia più ambiziosa che, solo in parte, si legge nell’ultimo Piano del governo.

C’è, innanzitutto, l’obbligo di dedicare al nostro patrimonio il talento che merita: l’apertura della direzione di siti che sono patrimonio dell’umanità è giusta persino sul piano morale, ma bisogna completarla con meccanismi che premino chi riporterà i musei italiani ai primi posti nel mondo e allontanare chi ha considerato la cultura un proprio territorio. Bisogna, poi, ridefinire il ruolo dello Stato: rinunciare alla guerra di trincea infinita tra amministrazioni – senza soldi e senza idee – che si contendono un monopolio che non ha senso; e incoraggiare dal centro l’innovazione che esiste solo se ammettiamo che tra territori c’è competizione leale.

Ma soprattutto è indispensabile capire che ridiventiamo capitale del viaggio, solo se la cultura e la natura ridiventano il centro di tutte le altre politiche e di comunità che riscoprono di essere tali.

 

Corriere della Sera