Turchia: la partita geopolitica dietro la crisi della lira.

di Dimitri Bettoni

Quella in corso attorno alla lira turca non è una semplice crisi economica, ma l’ennesimo capitolo di un confronto geopolitico, quello tra Turchia e Stati Uniti, che prosegue ormai da anni. L’improvvisa svalutazione della moneta turca, che solo quest’anno ha perso il 50% del suo valore contro il biglietto verde, è dovuta sì alla fragilità dell’economia turca, ma è stata innescata e accelerata dalla volontà della Casa bianca di porre sotto pressione Ankara.

Al centro della querelle ci sarebbe apparentemente il caso del pastore americano Andrew Brunson, in stato di arresto da oltre un anno perché accusato dalle autorità turche di essere legato al tentato golpe del 2016 e ritenuto invece, dagli americani, la vittima innocente di un complotto giudiziario. Il recente passaggio di Brunson dal carcere ai domiciliari, ottenuto anche grazie al rilascio da parte israeliana dell’attivista turca Ebru Ozkan, arrestata con l’accusa di terrorismo, non solo non ha placato le ire di Washington, ma, al contrario, ha spinto la Casa bianca a introdurre nuove sanzioni economiche nei confronti di un Paese alleato e membro della NATO. In particolare, le azioni hanno riguardato il ministro della Giustizia Abdulhamit Gül e quello degli Interni Süleyman Soylu, ritenuti da Washington “responsabili diretti”, i cui beni sono stati congelati e a cui è stato proibito l’ingresso negli Stati Uniti.

La vicenda di Brunson è, del resto, solo l’ultimo di una serie di casi controversi che coinvolgono Stati Uniti e Turchia e che, nonostante i numerosi contatti tra le parti e i tentativi di “scambio dei prigionieri” intrapresi da Ankara, non sono giunti a soluzione. Il governo turco, infatti, non solo insiste da tempo nel chiedere agli Stati Uniti l’estradizione dell’imam Fethullah Gülen, considerato la mente del golpe di due anni fa, ma nutre anche preoccupazioni per il processo a carico di Mehmet Hakan Atilla, ex manager esecutivo della banca pubblica turca Halkbank accusato di violazione delle sanzioni americane imposte all’Iran. Un caso che ha nell’uomo d’affari turco-iraniano Reza Zarrab il suo supertestimone e che rischia di coinvolgere anche parte della famiglia del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

Il caso Brunson, però, e tutti gli altri ricordati, per quanto considerevoli non sembrano sufficienti a spiegare gli ampi dissidi sorti tra i due Paesi. La lista delle “colpe” imputate ad Erdoğan è in realtà più lunga e significativa, e include l’acquisto da parte di Ankara del sistema di difesa missilistico russo S-400, il rifiuto turco di accettare la collaborazione tra esercito americano e truppe curde delle SDF nel Nord della Siria, il riavvicinamento di Ankara a Russia, Iran e Cina, il rifiuto del governo turco di aderire alle nuove sanzioni contro l’Iran decise dall’amministrazione Trump. Di fatto, due Paesi storicamente vicini vedono allargarsi la frattura che separa una leadership americana assai meno interessata al benessere dell’alleanza atlantica rispetto alle amministrazioni del passato, tanto da paventare persino l’uscita di Washington dalla NATO, e un governo turco sempre più propenso a volgersi verso le potenze eurasiatiche ostili all’America e all’Alleanza atlantica. Alle critiche e al mancato sostegno in occasione della crisi della lira, il presidente turco ha risposto sparando ad alzo zero in direzione Washington: «Siamo insieme nella NATO, eppure cercate di pugnalare alle spalle un vostro partner strategico».

Le mosse di Washington non potrebbero però aver causato un tale terremoto finanziario, che peraltro rischia di colpire pesantemente anche altre economie emergenti e alcuni Paesi europei, se l’economia turca non presentasse problemi strutturali che i suoi governi hanno, per calcolo elettorale o miopia, a lungo ignorato.

Gli anni 2007 e 2008, quelli della grande crisi dei mercati europeo e americano, avevano rappresentato in realtà un momento di benessere per i Paesi emergenti, Turchia in prima fila. Gli investitori in fuga dai mercati tradizionali avevano indirizzato le loro speranze verso Paesi come quello anatolico, con buone prospettive di profitto. Ma oggi che Europa e Stati Uniti hanno intrapreso il cammino della ripresa, ecco che i mercati una volta appetibili diventano assai meno redditizi. La Turchia si è trovata di fronte ad uno scenario nerissimo e alla contrazione dei flussi di capitali esteri con cui il Paese ha finanziato la tumultuosa crescita degli ultimi 15 anni, costruita su un massiccio indebitamento privato che oggi, con la lira in crisi, rischia di creare insolvenze a catena e portare alla recessione.

Pesa il deficit commerciale, che produce soprattutto beni a basso valore aggiunto perché i precedenti governi hanno investito principalmente in comparti redditizi nel breve termine, come quello edilizio, ma che non stimolano una produzione di qualità sul lungo periodo. La Turchia, inoltre, è uno Stato importatore di tecnologia ed energia: gas e petrolio si pagano in dollari e una moneta nazionale debole rende più oneroso saldare la bolletta energetica. Non arrivando più ossigeno dall’estero e dovendo rivolgersi ad altri mercati per l’importazione di beni che non vengono prodotti nel Paese, ecco che l’inflazione ha cominciato a salire. Sia lo Stato turco che le aziende nazionali faticano a ripagare i debiti contratti in valuta pregiata e devono offrire condizioni sempre più insostenibili per attrarre i necessari finanziamenti.

La strategia turca per uscire da questa crisi si fonda su due pilastri: multilateralismo da un lato, isolamento dagli Stati Uniti dall’altro.

«Loro hanno i loro dollari, noi abbiamo la nostra gente, i nostri diritti e il nostro Dio». Così il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan arringava qualche giorno fa la folla a Bayburt, sul Mar Nero, una delle sue roccaforti elettorali. Ma il presidente sa che questo non basta: servono alleati per vincere quella che considera una guerra economica lanciata contro il suo Paese.

Gli alleati più a portata di mano sono quegli Stati a loro volta colpiti dalle sanzioni americane: Russia, Iran, Cina. Erdoğan cerca di dimostrare all’America che può fare a meno di lei, che altre alleanze sono possibili, attraverso un multilateralismo che è della politica estera turca degli ultimi anni, ma che nasconde anche molte insidie. La Turchia cerca di svincolarsi da un’“alleanza impari”, come è definita quella con gli Stati Uniti. Ma questa disparità è dovuta anche alle oggettive differenze di peso economico e politico dei due Paesi. Per Erdoğan andare allo scontro frontale con gli Stati Uniti significa assumersi un rischio enorme. Anche perché i potenziali alleati in questa battaglia hanno anch’essi le loro difficoltà, non è detto che possano offrire garanzie di sostegno incondizionate e, in ogni caso, il loro aiuto richiederebbe in cambio il pagamento di un prezzo che Ankara dovrebbe valutare con attenzione.

Difficilmente la sola Russia, ben contenta di tendere il braccio verso Ankara, potrebbe iniettare nell’economia turca un flusso di denaro che compensi i mancati investimenti occidentali. La visita del ministro degli Esteri Sergej Lavrov in Turchia ha però dato un segnale importante ed è stata inaugurata portando ad Erdoğan un dono prezioso: la proposta di rimozione dei visti per i cittadini turchi che si recano in Russia. Ciò che la Turchia chiede da anni senza successo all’Europa, perché questa pone condizioni legislative e di tutela dei diritti a cui Mosca non è invece interessata. Per capire i reali obiettivi della Russia bisogna però guardare alla Siria e ai colloqui trilaterali di Astana. Assad si prepara ad entrare con l’esercito ad Idlib, l’ultima regione della Siria ancora in mano ai ribelli. Questa regione, posta dagli accordi sotto la protezione turca, è una delle cosiddette zone di de-escalation e la Turchia vi ha costruito dodici basi militari grazie alle quali presidia la zona. Assad la desidera ed è plausibile che Mosca chieda ad Erdoğan di allinearsi ai piani russi per la restaurazione di Assad.

Un potenziale alleato finanziariamente più potente è invece rappresentato dalla Cina, Paese che la Turchia corteggia da tempo e che vede come alternativa all’amaro salvagente del Fondo monetario internazionale. La Cina, che definisce la Turchia un «importante mercato energetico e la cui stabilità e sviluppo recano benefici alla pace regionale», sarebbe ben felice di investire in Anatolia. Da tempo Pechino mira ad acquisire ulteriori porti commerciali nel Mar Nero, nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale e vede nella penisola anatolica uno degli sbocchi privilegiati per il nuovo progetto di Via della Seta. Con la Turchia la Cina ha stretto partnership in settori vitali, quali le telecomunicazioni, la logistica marittima e ferroviaria, il commercio online, l’informatica e la sicurezza pubblica. La televisione di Stato cinese ha anche annunciato un accordo di finanziamento da quasi 4 miliardi di dollari con la Turchia attraverso la banca del commercio e dell’industria cinese. Erdoğan trova quindi in Pechino una sponda cordiale, ma la disponibilità cinese non è disinteressata ed il presidente dovrà letteralmente vendere pezzi del suo Paese per ottenerne il sostegno.

La vera speranza risiede, forse, nell’Unione Europea. All’oltranzismo di Trump l’Europa ha risposto con un atteggiamento pragmatico che prova a sfruttare la crisi turco-americana per riallacciare i rapporti con Ankara e far ripartire la diplomazia, dopo mesi di conflitto per la crisi dello Stato di diritto nel Paese anatolico. Francia, Germania, Spagna, Inghilterra e Italia sembrano disponibili ad andare incontro al bisogno di liquidità della Turchia, complice il fatto che gli investimenti europei sono consistenti ed un ulteriore tracollo dell’economia turca avrebbe effetti pesanti anche nel vecchio continente. Neppure l’aiuto europeo sarà però privo di contropartite: da parte europea ci si aspetta un’inversione di tendenza rispetto all’autoritarismo mostrato negli ultimi anni da Erdoğan, il ripristino dello Stato di diritto e una più attiva collaborazione nella gestione dei flussi migratori. Erdoğan pare prestare ora orecchio, lascia intendere di volersi sedere al tavolo dei negoziati, ma non rinuncerà alla strategia multilaterale che lo porta sempre più lontano da quel vecchio orizzonte occidentale che non ha mai davvero desiderato, neppure nei suoi primi anni all’insegna dell’europeismo.