U n Trump decaffeinato. Un «The Donald» che, accantonati i consueti toni collerici, parla come George Bush: successi economici, orgoglio nazionale, appello bipartisan ai democratici. Tutto vero, ma quello che l’altra sera si è presentato davanti al Congresso e all’America per il discorso sullo stato dell’Unione è soprattutto un presidente che, dopo aver anestetizzato per un anno l’opinione pubblica e i media con un bombardamento continuo di comunicazioni sopra le righe, spesso paradossali, talvolta platealmente false, riesce a far passare, e a far apprezzare alla maggioranza dell’audience, un messaggio più adatto a un messia che moltiplica pani e pesci che a un leader politico. L’America, da lui descritta nel discorso inaugurale di un anno fa come un Paese di perdenti, impoverito e depresso, ora è diventata una nazione orgogliosa e prospera che cresce rapidamente ed è tornata leader del mondo.
La terra che 12 mesi fa era devastata da un carnage , una carneficina, ora è la dimora di un popolo con un grande cuore: «Un’unica famiglia, un team unito». Tutti, lui per primo, sanno che questa descrizione non sta in piedi: i mercati gli hanno dato fiducia, le minacce di ricorrere al protezionismo non hanno avuto fin qui gli effetti deleteri temuti, ma l’unico atto significativo della sua amministrazione è una riforma fiscale entrata in vigore solo da pochi giorni. Una manovra che riduce le tasse per le imprese e gran parte dei cittadini, ma che farà crescere di molto il debito pubblico federale.
La forza di Trump sta proprio qui: la sua vittoria politica e mediatica è certificata dalla debolezza delle reazioni di dissenso, a partire da quelle dei democratici che si ritrovano costretti sulla difensiva. Attaccati sul loro stesso terreno, visto che Trump vanta assunzioni a valanga, un aumento degli stipendi per milioni di americani e annuncia nuovi benefici sociali per i lavoratori come aspettative familiari retribuite. E i repubblicani, che consideravano un attentato alla stabilità dell’America ogni dollaro in più speso da Obama, non solo hanno votato senza battere ciglio imponenti sgravi fiscali privi di copertura finanziaria, ma ieri si sono spellati le mani davanti a un presidente che promette di spendere altri 1.500 miliardi per riparare infrastrutture pubbliche che, denuncia, versano in uno stato vergognoso: reti fin qui abbandonate al loro destino soprattutto per l’ostinato rifiuto del partito conservatore di investire sulle strutture pubbliche.
Contraddizioni enormi che potrebbero anche scoppiare tra le mani del presidente. Da qualche giorno la Borsa è più nervosa: teme impennate dell’inflazione, visto che, col Paese già
alla piena occupazione e il blocco dell’immigrazione, molte imprese stanno riportando in patria fabbriche delocalizzate in Messico e in Asia. Poi servirà manodopera per i cantieri delle infrastrutture. Ma per ora Trump ha il vento in poppa e il partito conservatore è ai suoi piedi: se uscirà senza danni dalle elezioni di midterm di novembre lo dovrà a lui. Che generosamente sdogana i criticatissimi parlamentari repubblicani con un’altra iperbole: Washington non più fogna d’America, luogo di immondi giochi politici, ma faro per tutto il Paese col Congresso come sua cattedrale luminosa.
Corriere della Sera – Massimo Gaggi – 01/02/2018 pg. 1 ed. Nazionale.