Tre problemi a destra del premier

A valle di questa crisi, nasca o non nasca il governo Conte, l’ampia area politica che si colloca alla destra del centro avrà tre grossi problemi da risolvere.

Il primo è che cosa sia Forza Italia. In questo frangente il partito ha preso una posizione coerente con la propria storia: non avrebbe potuto avallare un’operazione tutta interna al Palazzo come il passaggio dal Conte uno al Conte due senza rinnegare la vocazione populista e plebiscitaria che forma parte integrante della sua tradizione politica.

Ma il berlusconismo non è stato soltanto populista e plebiscitario. È stato anche il tentativo di riconciliare un settore vasto e ombroso dell’elettorato con l’establishment e le istituzioni.

Un tentativo maldestro e in larga misura fallimentare, ma necessario alla nostra democrazia, che Forza Italia ha potuto esperire perché alla sua testa c’era un leader carismatico capace di sostenere con le sue sole forze un partito a vocazione maggioritaria. Oggi, alle soglie degli ottantatré anni, Berlusconi riesce a supportare tutt’al più un partito minore, che non potrà seriamente provare a rilanciarsi fin quando non cambierà leader. In queste condizioni la sua tradizione anfibia, fra Palazzo e popolo, smette di essere una risorsa e diventa un problema. Non per caso un segmento di Forza Italia spinge perché il partito si sposti tutto da una parte, mentre un altro tira nella direzione diametralmente opposta.Il secondo problema è che cosa sia la Lega, e riguarda in misura minore anche Fratelli d’Italia. Nascesse pure il governo Conte, la notizia della morte politica di Salvini sarebbe comunque largamente esagerata, almeno fin quando i voti in democrazia conteranno qualcosa. Naturalmente l’aver aperto male la crisi e l’averla gestita peggio gli costerebbero anche in termini di consenso. Mostra di avere una ben misera considerazione degli italiani, tuttavia, chi pensa che la bolla elettorale leghista sia destinata a sgonfiarsi in fretta.

Gli elettori italiani sono diventati assai volubili, è vero, ma c’è del metodo nella loro volubilità: Salvini ha raccolto voti perché ha intercettato ansie e speranze non superficiali, alle quali difficilmente potranno dar risposta il Partito democratico o un Movimento 5 stelle suo alleato in un governo maternamente benedetto da Bruxelles. Anche perché il Palazzo europeo è molto debole, a tal punto che con la tentata reincarnazione del governo Conte è alla seconda mossa azzardata in un paese fondatore della comunità, dopo quella che ha portato Macron all’Eliseo.

Ciò detto a Salvini, maestro nella raccolta del consenso, questa crisi ha impartito una lezione altrettanto magistrale: i voti in democrazia contano sì, ma non contano soltanto quelli. Tanto più in un Paese come l’Italia, esposto da sempre ai venti d’oltralpe (e d’oltreoceano). La questione di fondo è piuttosto semplice, allora: se e fino a che punto il leader leghista saprà imparare la lezione e modificare il proprio schema di gioco. Se e fino a che punto capirà che la retorica populista funziona a meraviglia nelle piazze, ma chi vuol governare non può fare a meno di spostare dalla propria parte almeno qualche stanza – se non un paio di piani – del Palazzo. Dei tre Palazzi, anzi: nazionale, europeo, atlantico.

Il terzo problema è che cosa sia oggi la coalizione di centrodestra, e la sua soluzione dipende da come saranno sciolte le prime due questioni. Chiunque ritenga che escludere quasi metà dell’elettorato italiano dalle istituzioni sia esiziale alla democrazia – e francamente mi riesce difficile non pensarlo – deve augurarsi una convergenza a destra che riesca a riprendere quel lavoro di collegamento fra elettori e istituzioni, difficile ma non impossibile, che Berlusconi ha fatto per quasi vent’anni. Perché ciò accada, però, è necessario che gli insegnamenti di questa crisi non vadano perduti. Né da una parte, né dall’altra.

gorsina@luiss.it

 

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