Tra Tesoro e Viminale la polemica non finisce qui.

 

TACCUINO
Dopo quella sulle nomine della Cdp e dei vertici del ministero dell’Economia, una nuova polemica s’è aperta, sulla Rai, tra il ministro Tria e Salvini. Il vicepremier e ministro dell’Interno ha detto che vuole incontrare, prima che siano nominati, i candidati ai vertici della tv di Stato. E il sottosegretario, nonché suo numero due, Giorgetti, sta trattando, non solo sul presidente (che dovrebbe spettare alla Lega) e sull’amministratore delegato (designato dai 5 Stelle) di viale Mazzini, ma su tutto il pacchetto di direttori più importanti che riguardano i Tg e le reti. In questo modo, allargando la torta, la Lega prova a far passare il criterio che se l’ad sarà pentastellato, non altrettanto dovrà essere per il direttore del Tg1, di gran lunga l’ammiraglia dell’informazione Rai. Rispetto a questi criteri, che in gran parte finge di ignorare, Tria ha detto, senza nominarlo, che Salvini e non solo lui può fare quel che vuole, ma la scelta finale tocca a lui, e non si farà condizionare. Non è la prima volta che un ministro dell’Economia entra in conflitto con il proprio governo. Con gli esecutivi berlusconiani è puntualmente accaduto, ed è ancora viva l’eco degli scontri tra Tremonti, il Cavaliere, e Fini, allora suo vicepremier. Ma anche nell’ultimo governo Prodi, certe affermazioni di Padoa Schioppa (una per tutte: «Le tasse sono bellissime») non sempre furono accolte con applausi. In quest’ultimo caso il tempo per un conflitto vero non ci fu, dato che dopo un anno e mezzo, nel 2008, Prodi si dimise aprendo la strada alle elezioni anticipate. Invece nella legislatura 2001-2006, interamente governata dal centrodestra, Tremonti dovette arrendersi, dimettendosi, alla richiesta di Fini, condivisa da Berlusconi, di avere la sua testa. E in quella 2008-2013, fu Berlusconi a provare a fargli le scarpe, rivolgendosi direttamente al presidente della Bce Trichet per avere qualche consiglio per risanare i conti italiani, ma ricevette una tale lista di compiti per casa, nel 2011, da dover aprire lui stesso la crisi di governo e lasciare Palazzo Chigi. Senza voler drammatizzare (siamo solo agli inizi) se ne ricava una legge non scritta: in caso di conflitto, alla fine, o si dimette il ministro dell’Economia, o il premier, e con lui l’intero governo.
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