LA SINISTRA LANCI UN GRIDO.

L’analisi
È difficile trovare molti precedenti alla sconfitta attuale della sinistra e al senso di impotenza che la attraversa. Al balbettante silenzio del Pd, ostinato solo nel suo interno confliggere e sempre più travolto dai vincitori del 4 marzo. Incapace sin di comprendere il consenso che attorno ad essi sembra consolidarsi.
Segnala processi di lungo periodo, quel consenso.
È più facile comprendere l’impavido avanzare di Salvini, saldamente ancorato alla destra profonda del Paese: alle sue vocazioni antiche e alle pulsioni più recenti, alimentate dallo scenario internazionale e da venti che soffiano da molte direzioni. “La maggioranza silenziosa ha ruggito”, scriveva un giornale americano all’indomani della vittoria di Trump: nel devastante avanzare del nuovo corso leghista vi è indubbiamente l’eco di quel ruggire ma la “destra smoderata” irrompeva da noi un quarto di secolo fa con la vittoria di Berlusconi e di Bossi, sulle ceneri del vecchio moderatismo democristiano. Contrastata e frenata quando le forze riformatrici seppero opporle un’idea di futuro, come ai tempi migliori dell’Ulivo, e libera invece di avanzare quando quel progetto declinava.
Per trovare un qualche precedente al disorientamento attuale occorre forse risalire ai mesi che seguirono la rivincita berlusconiana del 2001, favorita (anche allora) dagli errori e dalle guerriglie interne di una sinistra impegnata soprattutto a seppellire se stessa. E incapace di rispondere a quella esigenza di “buona politica” che il crollo della “Prima Repubblica” aveva portato allo scoperto, assieme ad altro.
Fu possibile invertire la marcia, allora, e il primo stimolo non venne dalle forze organizzate. Venne dall’urlo di Nanni Moretti a piazza Navona nel freddo febbraio del 2002 («con questi dirigenti non vinceremo mai») e dall’adesione che esso trovò in un “popolo della sinistra” pronto ancora a mobilitarsi e a sperare, capace di riconoscersi in valori comuni. E, dopo i primi fuochi di sbarramento, larga parte della forze politiche riformatrici sembrò accogliere quella spinta, sembrò comprendere quell’urgenza: nulla di tutto questo appare oggi all’orizzonte ed è al tempo stesso in crisi quel progetto d’Europa che fu allora un elemento di riferimento decisivo.
Più ancora, la crisi economica internazionale iniziata nel 2007-8 ha squassato alle radici i fondamenti tradizionali del welfare, asse portante delle democrazie occidentali, alimentando incertezze e paure cui la sinistra non sa rispondere e che la destra è abilissima nel cavalcare, oggi come ieri. È difficile stupirsi dunque dell’avanzata leghista ma è meno comprensibile il consolidarsi (nei sondaggi, non nelle elezioni successive al 4 marzo) di un Movimento 5 Stelle che contraddice ogni giorno se stesso. Che ha oscillato sin qui fra una impressionante ignoranza delle norme costituzionali, una spartizione delle poltrone che evoca il degradare della “Prima Repubblica” ed un orgoglioso trionfo dell’incompetenza.
A processi profondi rinvia dunque la sua quasi inspiegabile “tenuta”, come osservava domenica Emanuele Felice, e quei processi è urgente comprendere e contrastare. Difficile farlo senza una rifondazione della sinistra che sappia coinvolgere culture ed energie ancora ampie ma sempre più scoraggiate. Che sappia avanzare una proposta credibile di buona politica, in esplicita rottura con quel che è stato fatto sin qui, e che ponga al tempo stesso al centro alcuni nodi fondamentali, dalla crisi europea al Mezzogiorno. Il congresso del Pd doveva essere il primo banco di prova di questa partita, aprendosi radicalmente all’esterno: da quel che si è visto sinora sembra piuttosto annunciare un drammatico punto di non ritorno.
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