La tensione che nasce dal nazionalismo dello sport.

24 luglio 2018

di Lorenzo Longhi

A Mondiale archiviato, occhio agli scenari internazionali e alle mosse delle nazioni che, attraverso le varie rappresentative, vi hanno preso parte: secondo uno studio effettuato dal ricercatore statunitense Andrew Bertoli del Dartmouth’s Dickey center for international understanding che si intitola Nationalism and conflict: lessons from international sports ed è stato pubblicato sulla rivista International Studies Quarterly nel novembre 2017, infatti, nel corso della storia le dispute internazionali sono aumentate in certi Stati soprattutto a ridosso della partecipazione alla Coppa del Mondo di calcio.

L’ipotesi di fondo dalla quale muove Bertoli – e che viene corroborata dalle evidenze dello studio – è che quando una nazione compete come tale ad una manifestazione sportiva, nel Paese aumenta il sentimento nazionalista ed è probabile che ciò si traduca in un conflitto con un altro Stato. Ora, è fondamentale identificare cosa si intenda per “conflitto”, giacché in questo caso non si tratta necessariamente di una guerra: si parla invece di “militarized interstate disputes” (MIDs), definizione ombrello che può comprendere dalle dichiarazioni ostili e minacce fino a scambi armati, interventi o scontri aperti. La conclusione è che il nazionalismo insito nei Mondiali finisce per intensificare le aggressioni, specialmente nei Paesi nei quali il calcio è lo sport più popolare.

Il concetto da tenere in considerazione nella lettura dello studio è quello di identificazione, il senso del “noi” opposto a ciò che è “altro”. In questo senso, le ritualità del cerimoniale delle partite tra nazionali aiuta: bandiere e inni definiscono abbastanza plasticamente il perimetro dell’appartenenza, almeno quello percepito da chi le valuta dall’esterno, perché in questo caso non è in discussione l’identità individuale – che non è necessariamente univoca: gli esempi in tal senso sono molteplici e alcuni si sono esplicitati anche a Russia 2018 – ma il senso di comunità percepito. Per dirla con Hobsbawm, insomma, le «comunità immaginate di milioni sembrano più reali in una squadra di undici persone», nelle quali anche chi fa il tifo è egli stesso simbolo della nazione e questo patriottismo lo esprime anche nei canti che si sentono negli stadi.

Al contrario delle teorie secondo cui lo sport rappresenterebbe una sublimazione dei conflitti, questi – secondo la mole di dati elaborata da Bertoli – in realtà aumenterebbero sin dalle fasi di qualificazione ai Mondiali, per raggiungere il picco due anni dopo la manifestazione. I dati presi in esame vanno dal 1958 al 2014, e la metodologia del ricercatore centra il focus sulle nazionali – e di riflesso le nazioni – che si sono qualificate, o meno, per uno o due punti, incrociando le occorrenze con i livelli di conflitto internazionale fra le parti. Per bilanciare il tutto, in una seconda fase sono state tolte dal campione d’analisi Unione Sovietica e Stati Uniti, ma le risultanze dello studio hanno comunque confermato l’aumento dei conflitti sia a livello numerico che di intensità. Posto che naturalmente – e si evidenzia anche nello studio – non si può parlare di dispute generate o in qualche modo causate dal calcio, il nazionalismo dello sport contribuisce ad aumentare la tensione e fa da detonatore in ambienti già saturi di ostilità. Gli esempi citati da Bertoli, all’interno di un corpus decisamente vasto, sono diverse decine: si possono menzionare fra le altre le dispute della Nigeria nei confronti di Ciad e Liberia in seguito alle apparizioni nei Mondiali 1994 e 1998, la disputa militare fra Senegal e Gambia nel 2002 pochi giorni dopo il Mondiale (fu la prima partecipazione del Senegal al torneo), o le sei avviate dalla Francia – tre delle quali contro l’ex colonia tunisina – dopo essersi qualificata per i Mondiali del 1958, del 1978 e del 1982. Per contro, il lato eventualmente positivo di questo nazionalismo è che, a fronte di una maggiore tensione internazionale, fa registrare una diminuzione dei conflitti interni.

La ricerca, nelle sue conclusioni, si spinge anche a tentare di fornire alcune ipotetiche soluzioni per evitare l’aumento del nazionalismo, la più eterodossa delle quali invita gli organi competenti a considerare l’opportunità di creare eventi sportivi in cui le varie nazioni partecipino in rappresentative regionali, «come la Scandinavia o i Balcani», scrive testualmente Bertoli. Suggestiva, anche perché sostanzialmente irrealizzabile. Proprio le componenti balcaniche a Russia 2018, infatti, sono state protagoniste di diverse situazioni critiche: dall’esultanza provocatoria dei nazionali svizzeri Xhaka e Shaqiri – kosovari di etnia albanese – nel corso della sfida contro la Serbia, gesto che ha fatto molto discutere, al saluto a tre dita (classico simbolo del nazionalismo serbo) fatto ai tifosi di Belgrado dal capitano della nazionale Kolarov, saluto che però è passato sostanzialmente inosservato perché effettuato al termine di una partita – contro il Costarica – di scarso interesse geopolitico. Per non parlare degli insulti con cui il presidente del Partito Progressista Serbo (Serbskiej Partii Postępowej) Vladimir Djukanović ha scelto di criticare il suo connazionale tennista Djoković, che aveva espresso il suo tifo per la Croazia e, per questo, era stato definito «un idiota» dal politico, capo del partito del presidente Vučić. Eppure, dal momento che le situazioni sono sempre più complesse di quanto non appaiano, nell’ambito dei grandi festeggiamenti in Croazia al ritorno della squadra a Zagabria – nonostante la sconfitta – ad essere acclamato fra gli eroi nazionali è stato anche il portiere Danijel Subašić. Che è figlio di un serbo.