Toti Mannuzzu e l’arte di morire

Se ne è andato a 89 anni lo scrittore e politico sardo Diceva: “Se Dio e giustizia ci sono, sono amori a perdere”
di Luigi Manconi e Federica Graziani
Salvatore Mannuzzu, detto Toti, era forse l’uomo più schivo del mondo. Certamente il letterato più schivo dell’Italia contemporanea. Il suo rifiuto della mondanità, del futile e del superfluo, della mediatizzazione parossistica delle culture e dei linguaggi, era innanzitutto un’istanza morale e un’esigenza estetica. Quella estraneità allo spirito dei tempi non esprimeva risentimento, né tanto meno rancore, verso la società organizzata, le sue forme di vita, le sue istituzioni civili e culturali. Con tutto questo, Mannuzzu intratteneva lunghi commerci, parola, quest’ultima, che amava decontestualizzare attribuendole il senso di uno scambio intenso e appassionato. Non era nichilista né apocalittico, non certo a motivo di un sentimento di fatuo ottimismo o di una incrollabile fede nel progresso, ma perché «la catastrofe è così piccola che può essere già successa » (come recita un verso di una poesia di Corpus , 1997).
Con quella piccola catastrofe in cuore, nella sua lunga vita quell’uomo riservatissimo morto ieri mattina a Sassari a 89 anni, è stato magistrato per 21 anni, fino al 1976, deputato indipendente nelle liste del Pci, presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere e scrittore. E tante altre cose ancora.
Il suo primo romanzo, Procedura , fu pubblicato da Einaudi nel 1988, ma già venticinque anni prima, sotto pseudonimo, Mannuzzu aveva scritto per Rizzoli Un Dodge a fari spenti , opera che ricordava così: «Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto». Procedura è un giallo ambientato nel palazzo di giustizia di Sassari e il meccanismo dell’indagine poliziesca consente all’autore di condurre la sua investigazione psicologica sulle figure che abitano l’universo in cui si amministra la giustizia. Un mondo dove si pretende di distinguere il male dal bene, di individuare le colpe e i colpevoli, di infliggere i castighi e indurre al pentimento. Ma il ricorso al genere del giallo non è solo un pretesto. Per Mannuzzu scrivere è raccontare un enigma. «La letteratura è la presa d’atto, in modi specifici, del nostro comune stato di precarietà e incompletezza. In quei modi specifici, quindi, è anche una sorta di preghiera ». Scriveva, Mannuzzu, con il desiderio del senso e con l’intelligenza della nostra fragilità, scriveva accettando la fatica dell’approssimazione senza rinunziare alla verità, scriveva di una giustizia e di un Dio che, se ci sono, sono “amore a perdere”. Dopo Procedura ci sono stati altri romanzi, l’estate subacquea all’Asinara di Un morso di formica , l’amore al telefono tra un magistrato e la “squaw bambina” “di una fragilità impudica” de La ragazza perduta , e ancora Le ceneri del Montiferro , Il terzo suono , Snuff, o l’arte di morire ,
la raccolta di versi già citata, i radiodrammi Polvere d’oro , e i tanti saggi, da Il fantasma della giustizia a Giobbe , a Cenere e ghiaccio. Undici prove di resistenza , a
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio . Della sua produzione letteraria hanno scritto con entusiasmo critici tra i più lontani, come Geno Pampaloni e Goffredo Fofi. Eppure il successo fra i critici e la ricchissima produzione non lo hanno sottratto alla sua appartatezza. Lontano, sì, dai clamori del mercato culturale, Mannuzzu tuttavia è sempre stato coinvolto profondamente nelle vicende collettive, nella “barca sociale”.
Sospettoso delle proprie nostalgie, che tendeva a castigare senza sentirsene mai più che prigioniero, qualcuna, rarissima, se la concesse. Fra tutte, quella dei rapporti caldi e vivi con le masse di poveri, di persone con le più varie difficoltà, che da pretore coltivò in ragione di un altissimo senso del dovere e insieme di affetto per l’incontro. «Il fiato della gente addosso è la parte più bella della politica» e, come rappresentante nelle istituzioni, Mannuzzu ha agito guidato dalla convinzione che la soluzione dei problemi politici debba venire dal profondo, cercando di cambiare in primo luogo le anime degli uomini, poi le leggi. La sua vita personale fu segnata da molti patimenti. E fu questo, come diceva lui stesso, a condurlo alla meditazione su Giobbe. Una figura esemplare dello squilibrio tra innocenza e ingiustizia, della sospensione tra dolore e desiderio. «Solo il desiderio ci può tenere vivi», scriveva, ricercando un equilibrio nella tensione tra un desiderio inesauribile e il limite, durissimo, dell’infelicità che circoscrive la nostra vita. Leggeva quotidianamente la Bibbia, per trovare più che consolazione un approccio alla verità, alla vita. La sua fede nasceva da un’esperienza comune. «In ogni uomo resiste un fondo di innocenza che getta almeno un’ombra di ingiustizia su qualunque dolore che gli capiti di soffrire».
Il progresso sociale era per Mannuzzu l’alleviarsi dei dolori e la sua fede si accendeva per la misericordia, ma ciò richiedeva la disponibilità a combattere l’insensatezza, a tentare tutto il possibile per emancipare coloro che soffrono. Questa attitudine alla lotta e quel suo senso tragico dell’esistenza non devono indurre a considerare Toti come un uomo triste. Chi lo ha conosciuto e chi ha saputo leggere i suoi libri ha potuto rintracciare una tonalità ironica costante. La grazia della sua scrittura e la levità nella descrizione di luoghi e relazioni indicano un umore composto allo stesso tempo di compassione e gioco. Quella più alta forma di attenzione che è l’indagine della storia e il gusto della bellezza.
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