Todd Phillips Quanti equivoci per il mio Joker

Undici candidature agli Academy Awards per il film con Joaquin Phoenix Il regista commenta le diverse reazioni e il grandissimo successo ” Ma per me la cosa più importante è stata vincere il Leone d’oro a Venezia”
Arianna Finos
Londra
L’ultimo incontro era stato a Venezia, Todd Phillips in partenza con il Leone d’oro nella sacca e una copia del quotidiano sotto il braccio. «Un film umanista?
Mi piace questa definizione per Joker, la userò negli Stati Uniti».
Cinque mesi dopo l’appuntamento è allo Ham Yard Hotel, cuore londinese di Soho. Da settembre a oggi il film ha messo a ferro e fuoco i botteghini del mondo, oltre un miliardo di dollari, malgrado il divieto in patria ai minori di 17 anni. I premi si sono moltiplicati, le prossime tappe sono i britannici Bafta e gli Oscar, dove il film è il favorito con 11 candidature. Già disponibile per l’acquisto in digitale, il 6 febbraio arriva in Dvd, Blu-ray e 4K UHD con “extra” interessanti: dalla teoria di entrate di Joaquin Phoenix nello show di Robert De Niro agli approfondimenti sui costumi e sulla Gotham vintage mutuata dalla New York dei primi anni Ottanta.
Phillips, lo scorso settembre era molto preoccupato per l’accoglienza in patria del film.
«Beh avevo ragione (ride). Da Venezia è partito un viaggio piuttosto selvaggio: una montagna russa di alti e bassi. Ma in fondo è appropriato che un film che si chiama Joker faccia impazzire tanta gente».
Qualche reazione l’ha sorpresa?
«Beh, mai avrei pensato che lo avrebbero accusato di usare la violenza in modo irresponsabile. Per me è il contrario: raccontiamo le implicazioni della violenza nel mondo reale, non la celebriamo, non la rendiamo sexy e divertente come certi film pieni di pistole e mitragliatrici. Negli Stati Uniti il film è stato trasformato in altro. C’è perfino chi ha lo liquidato come nichilista. Non lo è: racconta gli effetti sugli individui di una società nichilista. Non penso che il film sia ultrapoltico, ma davvero che sia umanista. La parte politica, nel senso più progressista del termine, riguarda l’assistenza della salute mentale che ogni società dovrebbe avere. Parliamo dell’uguaglianza nell’assistenza sanitaria. I temi mi sembravano chiari, ma c’è chi ha voluto vederla in altro modo».
Lo scorso anno sembrò un miracolo che “Black Panther” fosse candidato come miglior film, “Joker” ha undici nomination.
«La cosa più grande che mi è successa, nella carriera, è stata vincere il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. Onestamente. Non so se nulla possa superare questa gioia, neanche le undici candidature.
Vincere il Leone d’oro mi ha fatto capire la storia del cinema, quelli che sono stati premiati prima di me. Da quel momento non mi sorprende più nulla. Ma avere undici candidature è bello perché significa che tutti i tuoi colleghi nel business hanno apprezzato e capito il film a livello profondo».
È vero che Martin Scorsese doveva essere produttore di “Joker”? Oggi siete rivali agli Oscar.
«È andata così: ho mandato a Scorsese la sceneggiatura chiedendogli se voleva fare il produttore esecutivo. Lui l’ha letta, mi ha detto che era bella e coraggiosa. Mi ha avvertito: “Lo sai che ci saranno persone che avranno problemi con questo tema, vero?”.
Ma stava per iniziare le riprese di The Irishman, non potendo farlo lui ha condiviso la sua produttrice con noi».
Scorsese ha definito i film di supereroi dei parchi giochi.
«Martin non vede quel tipo di film. Io la penso diversamente, sarebbe come dire che i film di gangster sono tutti uguali, mentre Quei bravi ragazzi è piuttosto diverso dagli altri. Alcuni di questi cinefumetti sono fatti da grandi registi, è difficile liquidare una trentina di film come fossero tutti la stessa cosa. Credo che però Martin si riferisse piuttosto al fatto che questi film colonizzano le sale e uccidono la diversità».
Tra gli extra del Blu-ray c’è la sequenza delle diverse entrate del Joker nello show di De Niro.
«Impressionante, no? Ogni volta Joaquin ti dà qualcosa di diverso e lo ha fatto per ogni scena. Volendo al montaggio potrei creare molti film diversi con i materiali che ho».
Il film ha scatenato molte interpretazioni. L’ambiguità era intenzionale?
«Sì. Tra le ispirazioni c’è la graphic novel di Alan Moore dell’88, in cui Joker dice “preferisco che il passato sia frutto di scelte multiple”. E così abbiamo creato una “origin story”, un racconto delle origini, che fosse percepito come ambiguo: c’è chi pensa che Arthur abbia immaginato tutto, altri che sia morto nel frigorifero (qui Phillips fa cenno di no con le mani, ndr), o che sia solo un imitatore del Joker. Non ho una risposta, l’unica cosa reale è il film».
Sarà curioso capire cosa succede ad Arthur dopo la fine del film. Ne farete un altro?
«Joaquin ed io pensiamo che ci sia ancora molto da dire su questo personaggio. Ma ciò che di certo non vogliamo fare è un sequel su un clown re del crimine che prende il controllo di Gotham. Cercheremo un film che abbia un tema importante come questo, che lo ha reso coinvolgente per persone di tutto il mondo».
Il commento che più l’ha commossa?
«Dopo una proiezione è venuta una ragazza, le lacrime agli occhi: “Mia sorella soffre di disturbo mentale, guardando questo film ho capito che ho bisogno di essere più consapevole di quel che prova, essere paziente con lei”. La malattia mentale è qualcosa di fronte alla quale la gente tende a perdere la pazienza. Se qualcuno ha un braccio rotto gli apri la porta perché è chiaro che ha bisogno di aiuto. Ma la malattia mentale spesso è invisibile e perciò ci sembra che non esista. Il complimento più grande al film è stato riconoscere che ha acceso un riflettore su certe malattie, creando più empatia e comprensione».
C’è stata una discussione politica ?
«Sì. Sono accadute anche cose belle e importanti. Si è alzata la discussione sul fatto che il sistema non si fa carico di chi soffre di questi disturbi, anzi sono stati tagliati i fondi per l’assistenza sociale. Il film è ambientato nel 1981, ma l’abbiamo scritto nel 2017: è uno specchio di quello che succede ora negli Stati Uniti: prendiamo i malati mentali ridotti a vivere per strada e li buttiamo in prigione, un posto a cui non appartengono. Ma chi liquida il film spesso preferisce fingere che tutto questo non esista».
La sua Gotham è una straordinaria New York vintage.
«Volevamo Gotham come una città sull’orlo del collasso, distrutta: il posto in cui la gente come Arthur viene trattata come, appunto, viene trattato lui. Una città che tratta le persone in quel modo si ritrova il cattivo che si merita: questa è l’idea».
Si è finalmente tolto l’etichetta di regista da commedia.
«Sì, Una notte da leoni (dice in italiano il titolo di un suo grande successo,
ndr). È stato difficile per la percezione che gli altri hanno di te.
Un regista è un narratore, cambiando genere usa solo muscoli diversi. Io proseguirò in questa direzione.
Viviamo tempi oscuri e noi artisti abbiamo la responsabilità di mostrarli. Da ragazzo mi colpiva Neil Young che andava nei boschi e componeva Ohio. Amo le canzoni di protesta e penso si possano fare anche film di protesta. Non ne vedo abbastanza intorno a me».
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