Ritratto dell’artista che non c’è.

A Milano le opere concettuali di Vincenzo Agnetti che ha indagato sui confini tra realtà, conoscenza e rappresentazione. Creando un’arte da “dimenticare a memoria”.
William Shakespeare definì uno dei compagni di Falstaff ne Le allegre comari di Windsor il “Marte dei malcontenti”. Un appellativo che sarebbe perfetto per Vincenzo Agnetti. Lo conferma la mostra antologica Agnetti. A cent’anni da adesso a Palazzo Reale di Milano a cura di Marco Meneguzzo. L’artista, partito da Milano con un’esperienza nell’ambito della pittura informale, assaggi da attore teatrale e abbordi letterari dell’arte altrui (Castellani e Manzoni) con la rivista “Azimuth”, ha vagabondato dal Mediterraneo fino al Nord Europa, nelle Americhe fino all’Argentina. Dunque Agnetti (1926- 81) è artista e intellettuale di confine, portato verso tentazioni interdisciplinari e peripezie esistenziali. Ogni opera è frutto di un’investigazione mai impersonale, oggettiva e neutrale, ma sempre supportata da una tensione morale e una pudica implicazione esistenziale: e il campo della sua investigazione è soprattutto il pensiero e il linguaggio. Così l’opera si fa arma, direbbe Picasso, puntata sul mondo, nell’interscambio tra arte e vita, nella coscienza che la creazione elabora sempre una perdita. Non esiste soluzione se non quella di “dimenticare a memoria” come recita il titolo di un celeberrimo lavoro di Agnetti: il Libro dimenticato a memoria (1970), le cui grandi pagine bianche sono vuote: ritagliate proprio là dove dovrebbe esserci un testo scritto, esistono solo in quanto cornice, confine sfogliabile di un nulla. “Dimenticare a memoria” significa quindi esperienza e accettazione del vuoto, abbandono di ogni tecnica, recupero del flusso della vita ma dentro la specificità della forma artistica: dunque un grande ossimoro, in concordanza filosofica con la definizione di Platone sulla conoscenza come reminiscenza e memoria e la conseguente affermazione di Francis Bacon nei suoi saggi che “ogni novità è oblio”.
L’opera dunque serve a creare choc mentali, a illuminare nuove prospettive concettuali, a rovesciare luoghi comuni. Come accade in Progetto per un Amleto politico (1973), dove la prima affermazione recita: “Amleto non è un uomo del dubbio”.
Telegramma Telefono Telegramma (1973) sono quattordici telegrammi che l’autore ha spedito a se stesso e ha poi raccolto in cartelle di plastica, l’ultima delle quali raccoglie le ricevute rilasciate dall’ufficio postale. Il tema è il linguaggio in relazione ai mezzi di comunicazione globali. Il telegramma, in particolare, in quanto medium della parola scritta da trasmettere immediatamente a distanza, diventa il supporto per un’analisi dell’uso della parola in relazione al tempo e al cortocircuito della comunicazione. L’operazione in sé – che fa ritornare all’autore i messaggi che egli stesso emette e trasmette – mette in scena un concetto di tempo-antitempo. La parola trasmessa, infatti è “ora”. Essa esemplifica il tempo che non scorre, che consuma le cose, in cui partenza e arrivo sono uguali e sovrapponibili, ma la cui coincidenza è anche impossibile. I due “ora” – quello di chi trasmette e quello di chi riceve – sono identici e diversi allo stesso momento.
Di un movimento nello spazio parla invece Gli eventi precipitano (1974-1975): è composta da sei tavole quadrate di bachelite nera (uno dei supporti preferiti da Agnetti) e dodici fotografie, che indagano sul movimento di linee, oggetti, persone, sul loro avvicinarsi e allontanarsi. Nulla è statico: per questo ogni cosa è, in realtà, inafferrabile. Soprattutto se ci illudiamo di afferrarla con le parole.
Oltre il linguaggio è il titolo significativo che Agnetti ha dato a una serie di lavori del 1969: l’artista manipola le lettere di un macchina da scrivere rendendole figure, oppure, come accade ad esempio con la Macchina drogata (1968) sostituisce i numeri alle parole.
Dimostrando che invertendo l’ordine dei fattori la somma non cambia.
C’è sempre uno sfasamento tra la realtà e la forma che le diamo. L’Autoritratto del 1971, in questo senso, è un vero e proprio manifesto programmatico dell’arte di Agnetti.
Su un rettangolo di feltro grigio appare la scritta: “Quando mi vidi non c’ero”. Tutti i Ritratti (una lunga e felice serie degli anni ’70) hanno come supporto il feltro, un materiale soffice e poroso, accogliente ma come privo di consistenza e solidità: l’opposto esatto della dura e assertiva bachelite. Evidentemente l’identità può poggiare solo su basi instabili e fuggevoli. E infatti su queste superfici – quasi delle soffici lapidi – vengono stampati epitaffi paradossali: “Coprendosi il volto cercava di assomigliarsi”, “Sorpreso nel buio dello stupore attendeva la dimenticanza”, “Chiuso in se stesso nel corpo di un altro”, “Piacevole e compiaciuta di farsi fotografare in braccio a se stessa”.
Non si esce dal monologo, in questo caso per niente interiore, ma visibile e didascalico. Perché come dice Amleto: l’attore non riesce a mantenere il segreto.
Agnetti, ripreso dalla sua passione per il teatro, realizza il già citato Progetto per un Amleto politico, installazione che sposta l’opera verso l’architettura. L’artista sembra assumere il sussurrio di Amleto (parole… parole… parole) e lo spinge verso il silenzio di una severa struttura tridimensionale eretta nel suo scheletrico rigore al centro dello spazio. È una messa in scena mentale. Ed è ciò che fa l’arte concettuale di Agnetti: produrre un elenco e una catalogazione di “frammenti come ha felicemente scritto Savinio – su cui abbiamo puntato le nostre rovine”.
La Repubblica –