“Ti ricordi Massoud?”.

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Da Corriere della Sera del 28/12/14
Steve McCurry, il fotografo americano reso celebre dalla fotografia della ragazza afghana dagli occhi verdi, nel dicembre 1979 è tra i primi a documentare la tenacia dei mujaheddin che affrontano l’invasore sovietico. Ancora inesperto, armato «di due macchine fotografiche, 4 obiettivi, una borsa con i rullini, qualche pacchetto di noccioline e un coltellino svizzero», scatta le immagini che il 27 dicembre il New York Times mette in prima pagina.

In Italia per inaugurare una mostra allestita nella Villa Reale di Monza, McCurry mi investe con la storia che considera la più drammatica della sua vita. «Nella primavera del 1980 ero nei pressi di Jalalabad in Afghanistan, in cammino con i mujaheddin verso Peshawar, in compagnia di un fotografo inglese, Peter Jouvenal, e di un tuo collega, Ettore Mo». Racconta con dovizia di particolari: il numero di ore di cammino, a volte nove o dieci, il percorso tra le montagne, le esecuzioni sommarie, il furto subito da Ettore Mo, l’incarcerazione in Pakistan con l’accusa di spionaggio.

Da quasi 35 anni non ha visto né sentito Mo e ha molta voglia di incontrarlo. Mi procuro il cellulare di Mo, e i due si parlano. McCurry, che ha un’agenda fitta, è pronto a qualsiasi variazione: «Ti invito a cena. Non puoi? Allora a pranzo. Non puoi?». Mo gli spiega che non può per motivi di salute. McCurry visita la sua mostra distrattamente, fino a quando Mo chiama al mio telefono: «Dì a Steve che lo aspetto domattina in stazione Centrale alle 10, binario 10». Alle 10, binario 10, siamo tutti riuniti. Scattiamo le fotografie.

Seduti al caffè della stazione inizia il confronto a colpi di rievocazioni. Comincia McCurry: «Ti ricordi quando il capo dei mujaheddin, che si considerava disonorato perché uno dei suoi ti aveva rubato 800 dollari, ti ha risarcito di tasca propria?». «Sì — ribatte Mo — e quando, dopo l’esecuzione di quei lavoratori afghani accusati di collaborare con i sovietici, i ribelli ci hanno invitato a condividere il pranzo?». «Io ero talmente sconvolto — confessa McCurry — che non ho toccato nulla». Poi il discorso cade sul grande capo Ahmad Shah Massoud. Prende la parola Mo: «Dopo l’attentato in cui ha perso la vita, sono andato alla ricerca di Massoud Khalili, poeta e braccio destro del Leone del Panshir: volevo sapere come aveva trascorso l’ultima notte della sua vita. Khalili, che nel frattempo era diventato un diplomatico di alto rango, mi confidò che lui voleva andare a dormire ma che Massoud si dimostrò contrariato: “E perché mai, disse, per dormire c’è sempre tempo”. “Così parlammo tutta la notte”. E di cosa avete parlato?, chiesi io. “Di Dante Alighieri e Victor Hugo, mi rispose Khalili”».

L’incontro dura un paio d’ore. Poi Ettore viene in via Solferino, al Corriere : «Quando decisi di fare il giornalista inviai i miei pezzi a Piero Ottone, e lui mi rispose che non poteva assumermi. Aggiunse però: “Lei sa come tenere la penna in mano”. Conservo ancora quella lettera. In seguito fu proprio lui a reclutarmi. Qualche tempo dopo mi capitò di intervistare Dario Fo. Ottone odiava i personalismi, ma quella volta me ne concesse uno, perché, disse, nella vita non gli sarebbe più capitata una circostanza simile. Alla fine dell’intervista mi accomiatai: “Grazie, signor Fo”, e lui di rimando: “Grazie, signor Mo”».