TI HO LETTO, AGAMBEN

di Mauro Covacich

Lo scorso autunno, con l’inasprirsi delle misure contro il coronavirus, mi sono tornati in mente i pezzi che aveva scritto Giorgio Agamben mesi prima su stato d’eccezione, decretazione d’emergenza, leggi speciali, e mi è venuta voglia di approfondire il suo pensiero. Il filosofo era stato criticato da più parti per le sue opinioni sulla gestione della pandemia e io stesso, nel mio piccolo, mi dibattevo tra la volontà di respingere drasticamente le sue idee e la tentazione di aderirvi.

I provvedimenti presi dal governo mi sembravano, e mi sembrano, inevitabili vista la situazione drammatica in cui il mondo intero si è trovato, nello stesso tempo era innegabile che nel primo lockdown la mia vita si fosse ridotta a semplice sopravvivenza e che, dopo un’estate di tregua, le nuove restrizioni l’avrebbero riportata rapidamente a quella condizione. Non avrei più cenato con gli amici, non sarei salito a Trieste ad abbracciare mia madre neanche per Natale, non sarei andato agli spettacoli di RomaEuropa festival, non avrei visto mostre né visitato gallerie, avrei mangiato esperimenti improvvisati o peggio premeditati dalla mia compagna, avrei studiato le cornacchie nel giardino condominiale, avrei guardato le televendite, avrei dormito. Certo, grazie alle limitazioni a cui ero costretto non sarei morto, e magari avrei anche evitato di far morire altre persone, ma quella si poteva ancora definire vita? La vita che ci restava una volta tolte le nostre libertà era ancora tale? Se compivamo quei sacrifici non per scelta personale — il che ci avrebbe resi liberi di affrontarli, liberi di assoggettarci responsabilmente a noi stessi —, bensì li compivamo per imposizione dello Stato, il quale a sua volta non deliberava in Parlamento, ma applicava i protocolli di sicurezza emanati da un comitato tecnico scientifico, se accadeva questo, che ne era della nostra vita di persone? Possibile che ci si rassegnasse a sopravvivere? Possibile che ci si mettesse nelle mani dei virologi, professionisti preparatissimi il cui sapere però non poteva prevedere alcun progetto, né un orizzonte di senso verso il quale avviarci? Possibile che in quel comitato, oltre agli scienziati, non ci fossero anche poeti, filosofi e musicisti? (Sì, anche musicisti, esseri umani capaci di osare l’inaudito, di forzare i vecchi spartiti e sfondare nella dodecafonia).

Era importante leggere i dati di settimana in settimana, ma forse bisognava compiere uno sforzo ulteriore, inventarsi altre forme di relazione, nuove declinazioni per il sostantivo esistenza, escogitare un modo per salvaguardare la salute psichica delle persone, non solo quella fisica, scoprire un modello di cooperazione che tutelasse la vita nei suoi valori morali, civili, religiosi, senza ridurla alla sua essenza biologica.

Però a questo punto venivo ammutolito dall’argomento basico, le centinaia di uomini e donne che morivano ogni giorno, rispetto alle quali era giustificata l’extrema ratio, qualsiasi essa fosse.

Permettersi di eccepire, nel linguaggio spiccio dell’emergenza, significava già lambire i territori foschi del negazionismo, condividere le posizioni di Bolsonaro e Trump, fare spallucce di fronte alla sofferenza di chi se ne andava. Non volendo in alcun modo essere etichettato come un qualunquista irresponsabile, mi rimangiavo tutte le domande prima di pronunciarle e ripassavo coscienzioso le clausole per l’attività motoria…

Ma mi sto dilungando troppo e temo anche di avervi portato fuori strada, perché questo pezzo non è a favore o contro le restrizioni del governo, e non è nemmeno un commento all’opera di Agamben, vuole essere piuttosto, e sarà da qui in poi, il resoconto di un’esperienza, quella della lettura di un libro.

Quindi ho acquistato l’edizione integrale dell’Homo Sacer, edita da Quodlibet, che raccoglie in 1.360 pagine (70 solo di bibliografia) la ricerca che Agamben ha compiuto in vent’anni, dal 1995 al 2015, in un primo tempo pubblicata in nove singoli volumi e ora riunita per volontà stessa dell’autore in un unico tomo, elegante, dalla sovraccoperta bianca, del peso e delle dimensioni di un buon dizionario. Va detto che non ero completamente a digiuno, avevo letto due dei nove volumi alla prima uscita e molte altre pubblicazioni del filosofo, soprattutto le divagazioni autobiografiche e i saggi sparsi, che ora mi verrebbe da dire essoterici, cioè rivolti anche ai profani, considerata l’impostazione spiccatamente esoterica del librone che avevo tra le mani.

Dopo il sommario e l’indice, il libro si apre con tre citazioni in esergo, quelle frasette che di solito hanno funzione di viatico o meglio ancora di sintesi illuminante del segreto racchiuso nel testo, e solo in alcuni romanzi fanno da semplice ornamento, il che non poteva certo essere nel caso di un lavoro ventennale di uno dei più importanti filosofi europei. Al contrario, era chiaro che Agamben le aveva scelte accuratamente, soppesandone magari molte altre, e le aveva messe lì con un motivo preciso. Già, ma quale? Preparare il lettore? Metterlo in guardia? O forse addirittura respingerlo? La prima è di Friedrich Carl von Savigny, due righe in tedesco. La seconda è di Thomas Hobbes, sei righe in latino. La terza, un versetto di San Paolo, in greco. Be’, non potevo certo saltare direttamente all’introduzione, chissà cosa mi perdevo. Rimbocchiamoci le mani, ho pensato, sempre meglio che restare a osservare le cornacchie.

Il versetto, prima scoperta, veniva dalla Lettera ai Romani, ma la traduzione che avevo trovato suonava ancora più criptica dell’originale, soprattutto in rapporto allo studio che mi accingevo ad affrontare. La frase di Hobbes veniva, seconda scoperta, dal De cive. Non avendolo in casa e non potendo andare in biblioteca, mi sono aiutato un po’ con internet e poi ho sottoposto la mia traduzione a un amico latinista, senza che il risultato apparisse a entrambi più che anodino (ma chiaramente sbagliavamo, doveva essere sibillino, a saperlo interpretare in funzione del seguito). Solo la frase di Von Savigny, la cui fonte mi è tuttora ignota, è risultata di qualche utilità come chiave di lettura, ma è chiaro che non ero io l’interlocutore di quel libro. Era questo che voleva dirmi Agamben. Quella prima pagina non era un test d’ingresso, né un rito iniziatico, né un indovinello per varcare le porte: faceva luce per quei pochi che avrebbero poi capito anche il resto, suggerendo agli altri, avvicinatisi erroneamente all’opera, di non perdere tempo.

Il fatto è che io avevo un sacco di tempo da perdere. Inoltre, pur comprendendo l’intenzione dell’autore, dotata in fondo di un’ecologia mentale, una parte di me si ostinava a credere di appartenere a quei pochi. Non avevo insegnato per un po’ filosofia nei licei (superando il concorso ordinario), prima di votarmi all’ozio letterario? Non avevo bazzicato nel cosiddetto post-strutturalismo francese, dal cui bacino era uscita l’analisi biopolitica di Foucault e poi dello stesso Agamben? Non appartenevo quindi agli iniziati? Era inutile però che me la prendessi, l’autore non aveva intenzioni offensive, semplicemente puntava più in alto, quei pochi li immaginava suoi simili, un manipolo di giganti sparsi nei dipartimenti universitari, insieme ai quali fare il punto sulla verità.

Ciononostante mi sono messo a leggere. Ogni giorno ho trascorso parecchie ore circondato dai dizionari, chino su quel libro. Ecco, anche la postura a cui ti costringe è interessante. Stando molto alla tastiera, di solito preferisco leggere sul divano, ma in quel caso era impossibile, non solo per la scarsa maneggevolezza del libro. Era la densità concettuale a costringermi sulla sedia, quel periodare vorticoso pieno di corsivi e citazioni che mi stritolava il cranio fino a farlo scricchiolare. Dal flusso delle argomentazioni certe volte mi capitava di estrarre una sentenza particolarmente luminosa e uscivo a corricchiare rimasticandola all’infinito. «Il potente può passare all’atto solo nel punto in cui depone la sua potenza di non essere (la sua adynamìa)». È grazie al fatto che ho deposto la mia potenza di non scrivere l’articolo, è grazie a questo che voi lo state leggendo. La mia decisione di mettermi all’opera non è più importante della resistenza che ho vinto per farlo. L’importanza dell’inoperosità, niente più che un esempio, peraltro rinfrancante, soprattutto nei mesi scorsi.

Avanzavo nella nebulosa, pagina dopo pagina, raccoglievo una pepita e me la portavo in giro per il quartiere. Piano piano stavo familiarizzando di nuovo col linguaggio auratico della filosofia, avevo anche l’impressione di capirlo, si riattivavano certe radicette rosa nel cervello che credevo atrofizzate per sempre.

La vita è sacra, la vita è sacra, questa è la risposta che mi sono sentito opporre nei mesi scorsi ogni volta che azzardavo sollevare un dubbio sulla sclerotizzazione del nostro modo di affrontare la pandemia. Eppure appellarsi al carattere sacro del vivente è un modo per ridurci a quella che Agamben chiama la nuda vita. L’homo sacer del titolo è una figura del diritto romano arcaico, colui che, per aver commesso un delitto contro gli dei, veniva espulso dalla comunità ed esposto all’arbitrio del prossimo, al punto da essere uccidibile impunemente. Sacro nel senso di bandito da. Il modello esemplare di homo sacer contemporaneo è la vittima dei campi di sterminio, nel gergo dei lager il musulmano, come sappiamo dai libri di Primo Levi. Il musulmano è ridotto a nuda vita.

Ovviamente nessuno di noi può nemmeno sognarsi di evocare le condizioni dei lager a proposito della società civile di oggi, però poi sul fondo ghiaioso della teoresi agambiana raccoglievo un’altra pietruzza luccicante: «La cesura che divide l’ambito biopolitico è quella fra popolo e popolazione, che consiste nel far emergere dal seno stesso del popolo una popolazione, nel trasformare un corpo essenzialmente politico in un corpo essenzialmente biologico». Della popolazione lo Stato controlla natalità e mortalità, salute e malattia. Permette il consumo di superalcolici e sigarette e vieta il consumo di cannabis, favorisce la dipendenza da slot-machine e altre forme di deragliamento, trasmette eventi sportivi come il motociclismo o l’automobilismo dove la fonte principale di attrazione è la possibilità di un incidente, ma si oppone, tanto per fare un esempio, al suicidio assistito, affidando la morte, la mia propria personalissima morte, alla medicina, privandomi del diritto di sapere come fare per andarmene dolcemente, lasciando all’ospedale la facoltà di stabilire quando e a quali condizioni potrò smettere di respirare e di essere alimentato.

Sia chiaro, Agamben non dice nessuna di queste cose, e comunque non le avrebbe mai dette in un modo così volgare. Sono io che giorno dopo giorno, addentrandomi nell’intrico della sua foresta speculativa, mi sono ficcato in questi pensieri. Quant’è importante la vita dei nostri corpi, pensavo corricchiando per il quartiere, quant’è dominante. Dietetica, chirurgia estetica, ginnastica e una salutare, altrettanto atletica, attività sessuale. Zoe, la vita del corpo. Il corpo trattato, curato, gestito, postato. Anch’io andrò a vaccinarmi appena mi verrà data la possibilità, so quanto sia opportuno proteggermi e proteggere gli altri da me. Ma so anche, ed è questo a turbarmi, che quando arriverà il prossimo virus accetterò di nuovo tutte le privazioni che mi verranno imposte, niente amici, niente madre, niente arte, niente cinema, niente gite, niente vita (bios politikos), pur di salvare la vita del mio corpo. Perché?

Il perché è la questione della filosofia. Agamben ha impiegato vent’anni per provare a rispondere. Alcune sue risposte forse le ho capite, altre no, poco importa, tanto non parlava a me. Quello che importa è che mi abbia spinto a scervellarmi ogni santo giorno e a farmi «costituire come forma-di-vita, in cui zoe e bios, vita e forma, privato e pubblico entrano in una soglia di indifferenza e in questione non sono più la vita né l’opera, ma la felicità». Eccomi dunque forma-di-vita. I trattini magari ve li spiego la prossima volta, o meglio ancora, ve li andate a scoprire da voi.

E ora un po’ di ricreazione.

 

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