Strand-Zavattini, la qualsiasità rappresentativa

Viene da ragionare una volta di più su «cos’è un classico». Fra le citatissime definizioni di Italo Calvino, adeguata mi pare la quarta: «d’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura». Non avevo mai letto, prima che lo ristampasse Einaudi (con classicistica nudità e classista prezzo da «strenna»: pp. 91, ill. b.n., € 40,00), Un paese di Paul Strand e Cesare Zavattini; ma pensavo, a torto, di conoscerlo per filo e per segno. Classico del «fototesto» di cui tanto oggi si discorre, di Un paese sono stati fatti vari remakes; gli si sono dedicati saggi, convegni e mostre (importante quella del 2017 a Reggio Emilia).
Zavattini conosce l’allora sessantenne fotografo americano, al secolo l’ebreo comunista Nathaniel Paul Stransky, a un convegno nel ’49; e propone subito una collana di fotolibri dal titolo «Italia mia», sulla vita di tutti i giorni nelle campagne e nelle città. Un ulteriore «pedinamento», come Zavattini aveva definito il «suo» cinema neorealista: a Einaudi parla di «film su carta». Ma commercialmente Un paese è una delusione, come la Conversazione in Sicilia che due anni prima Elio Vittorini aveva corredato delle immagini di Luigi Crocenzi; e Un paese resta un esemplare unico. Diversissimi prototipi di una fototestualità mai fattasi davvero «genere» sino a oggi (col povero Vittorini sconciato da un’ultima edizione Bompiani beatamente ignara del dibattito odierno).
Un libro, tutti i libri: allo stesso modo che un paese, tutti i paesi. A concentrarsi sul suo paese si risolse, Zavattini, dopo aver pensato viceversa a «mettere il dito a caso sulla carta geografica dell’Italia». È quella che chiamava qualsiasità, come nella saggezza popolare: «tutto il mondo è paese». Se la contingenza assoluta della qualsiasità ha finito per assurgere alla classicità, è perché in qualche misterioso modo incontra il suo contrario. Ogni immagine di Strand, ogni ansa di fiume e ogni barca, ogni faccia ogni ruga ogni bicicletta al muro stanno lì, in quel momento, e insieme per sempre. Ha scritto John Berger che l’obiettivo di Strand «trasforma i suoi soggetti in narratori»: e infatti insieme alle immagini acquista la medesima pregnanza ogni frase, ogni sgrammaticatura, ogni mezzo sorriso di luzzarese riportato da Zavattini.
Inevitabile il confronto col capolavoro del fotolibro «social», Sia lode ora a uomini di fama, pubblicato dopo mille traversie da James Agee e Walker Evans nel 1941. La terragnità di Zavattini, fragrante di spezzature e anacoluti, è agli antipodi dalla letteratissima eloquenza marxista e cristiana di Agee, più di quanto il linguaggio «classico» di Strand si distanzi da quello monumentale di Evans. Ma per entrambi i ticket lo scatto, come la scrittura, non era che il punto d’arrivo di un’assimilazione alla terra ritratta, di un respiro che doveva prima accordarsi con quello della sua comunità. E c’è una più profonda solidarietà concettuale. Il dito di Zavattini sulla carta geografica dice che quel paese deve diventare tutti i paesi, come i luzzaresi interrogati stanno lì per tutti i loro compaesani. Agee usa una parola quasi tecnica: «non trovammo una singola famiglia che potesse rappresentare adeguatamente l’intero mondo dei fittavoli (…), ma con la famiglia che era circa la più rappresentativa delle tre ci vivemmo un po’ meno di quattro settimane». È la stessa concezione democratica, in senso trascendentale, che aveva ispirato il più grande poeta del paese di Evans, Agee e Strand: tanto che in italiano s’è potuto intitolare Giorni rappresentativi il libro che Walt Whitman aveva intitolato invece, nel 1882, Specimen Days. Il myself che monumentalizza sé stesso nelle Foglie d’erba lo fa in quanto specimen: «un comune individuo» del Nuovo Mondo. Il pittore più amato da Whitman era Millet, che toccava un’«unica maestà di espressione» ancorché trattasse sempre, e anzi proprio perché trattava, «temi che definiremmo luoghi comuni». Ad accomunare le foto di Strand a quelle di Evans è proprio questa postura rappresentativa.
Ma l’originalità di Un paese sta nella distanza fra la «serietà» solenne di Strand e la vivacità di Zavattini: contrasto che ha fatto la fortuna del libro. Non adotta ancora il dialetto, Za, come farà in Stricarm’ in d’na parola, ma trascrive con gusto contagioso la fragranza di quei giri di frase, la spericolatezza di quella lingua tutta corporalità, fantasticamente brachilogica. Gianni Celati non ha fatto mistero di essersi ispirato alla qualsiasità di Zavattini, ma altrettanto esemplare – per la «scuola emiliana» da lui derivata – è la lingua di questo Za: mai a norma italiana, mai davvero dialettale.
Diceva Luigi Ghirri che in Un paese si ritrova il senso di comunità delle «cantate di Bach (…) scritte per la gente del villaggio». Un paese è un resto monumentale, il fossile vivente di uno ieri assoluto, edenico, originario. Così lo ha interpretato un artista che, nato a Luzzara nel 1943, poteva essere nella torma di bambini che accerchiavano festosi quel fotografo coi capelli bianchi e gli occhi calmi: in un suo libro straordinario del 2008, Incipit, Claudio Parmiggiani ha ritrovato, sul palinsesto delle immagini di Strand, l’origine delle proprie: «vi riconosco, dormienti, le forme primigenie (…) trasfigurate in opere». In Un paese Zavattini ricorda un’espressione contadina (con la quale nel 1997 Jolanda Insana intitolerà la sua raccolta poetica più bella): «in luglio si innesta “ad occhio dormiente” la vite (…), mentre la moglie mette in fila contro il muro davanti alla casa mestoli, padelle, l’alluminio ammaccato e il fuligginoso paiuolo tutto caldo di rame dentro».
Gli oggetti, muti ed eterni, sono gli stessi di Strand. Ma più m’interessa quell’occhio. Le piante vengono innestate l’una sull’altra, si sa, per formare una nuova specie più fresca e produttiva. Un po’ come s’è fatto con la fotografia in letteratura. E si parla di innesto a occhio dormiente quando il trapianto viene svolto a fine estate: in modo che la parte trapiantata fiorirà, sì, ma solo a distanza di tempo. È quello che succede coi classici.

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