Il sondaggio dell’Atlante Politico di Demos per la Repubblica accentua le tendenze emerse dalle elezioni del 4 marzo. Non potrebbe essere altrimenti. D’altronde, il quadro disegnato dal voto e confermato dal sondaggio è segnato da fratture profonde. Sul piano politico, sociale e territoriale. Difficile immaginare soluzioni chiare. Almeno, in tempi brevi.
Le stime di voto, anzitutto, riproducono e accentuano il profilo dei protagonisti. I vincitori si rafforzano. Gli sconfitti cedono ancora. Il M5s sale fino a sfiorare il 34%. Mentre la Lega supera il 18%. Ottiene il 18,2% e raggiunge (quasi) il Pd. Ma, soprattutto, distanzia FI, che perde più di un punto e scivola sotto il 13%. Riguardo agli altri partiti, le stime di voto registrano pochi cambiamenti. Salvo una crescita di Leu. Che ribadisce le difficoltà del Pd. Ormai assediato da direzioni diverse. Tuttavia, le indicazioni offerte dal sondaggio confermano la difficoltà di trovare soluzioni stabili. Perché dalle elezioni esce un Paese senza maggioranze – politiche e parlamentari – chiare e definite. Un Paese diviso in tre minoranze largamente in-comunicanti. Proprio come nel 2013.
Oggi, però, sono passati 5 anni da allora. E il clima antipolitico si è appesantito. Ne hanno beneficiato, in primo luogo, i vincitori, M5S e Lega. I quali, anche per questo, si mostrano prudenti di fronte alla prospettiva di abbandonare le posizioni e le ragioni alla base del loro successo elettorale. L’esigenza e la voglia di governare, per questo, contrastano, in qualche misura, con la necessità di trovare alleati. Di accettare mediazioni e contaminazioni. E l’unica ipotesi di alleanza che incontra un buon grado di sostegno è l’accordo fra i vincitori. Il M5S e la Lega. Condivisa da circa un quarto degli elettori (intervistati). Ma soprattutto dalla base del M5S. Che si mostra, peraltro, ostile a un’intesa allargata a FI. Maggiormente gradita, invece, dagli elettori della Lega. Tuttavia, la soluzione preferita, seppure di poco, è: tornare subito alle urne. Come vorrebbero, anzitutto, gli sconfitti. Gli elettori del Pd e di FI. Come, peraltro, non dispiacerebbe ai votanti dei partiti vincitori. Per ragioni, ovviamente, opposte. I primi: per desiderio di riscatto. Gli altri: per massimizzare il successo. E governare senza compromessi. I compromessi, tuttavia, in questa fase sono necessari. Imposti dai numeri. Ma votare presto non è facile né scontato. A causa delle in-compatibilità fra leader ed elettori dei partiti che stanno su sponde diverse e opposte. Ma anche nella stessa area. Lo abbiamo visto anche dopo il 2013. Allora, le difficoltà apparivano analoghe. Eppure la legislatura è proseguita. E si è conclusa, per quanto faticosamente. D’altra parte, oggi, oltre metà dei parlamentari sono neo-eletti. Non riesco a immaginare quali argomenti potrebbero convincerli a rinunciare al seggio…
Tuttavia, la costruzione di una maggioranza parlamentare dipende, in larga misura, dalla disponibilità del principale “sconfitto”, il Pd, a entrare in gioco. In modo diretto oppure con un sostegno esterno. Per “senso di responsabilità”. Si tratta, comunque, di una prospettiva complessa. Una componente ampia dei suoi elettori, infatti, sembra approvare un “governo di scopo”, guidato da una personalità “esterna” agli attuali schieramenti. Com’è avvenuto nella scorsa legislatura. Solo una minoranza della base Pd, però, si dice favorevole ad appoggiare un governo, senza farne parte.
D’altra parte, si tratta, ormai, di un partito “spaesato”. Ha, infatti, perduto le radici. Gli manca la terra sotto i piedi. La tradizionale “zona rossa”, dove la Sinistra era da sempre maggioritaria, oggi si è sbiadita. E appare una regione assediata. Erosa da altri colori. Il Verde leghista. Il Giallo dei 5S. D’altronde il legame fra Giallo e Verde appare molto stretto. Visto che oltre un terzo dei simpatizzanti del M5S si dice vicino alla Lega. E viceversa. Ma appare forte anche il rapporto fra gli elettori vicini al Pd e al M5S. A conferma della “trasversalità” della base pentastellata.
Il problema del Pd, tuttavia, è “radicale”. Coinvolge, cioè, le sue “radici”. La sua base elettorale, nella quale i giovani sono pochissimi. Prevalgono i pensionati e gli impiegati pubblici. Mentre gli operai e, ancor più, i disoccupati, oltre ai giovani, preferiscono rivolgersi al M5S. I lavoratori autonomi, i dipendenti privati: alla Lega. È il tempo del ri-sentimento. Alimentato dalla crisi economica, che ha generato protesta e reazioni contro i partiti che hanno governato ieri. E contro i loro capi. Così, oggi la fiducia nei confronti di Renzi e Berlusconi tocca il minimo. Sotto il 30%. Mentre cresce (di oltre 10 punti) il gradimento per Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Che raggiunge i livelli più elevati (46-48%), da quando sono entrati nella politica nazionale. In questo scenario oscurato da ri-sentimenti (anti)politici, appare sorprendente il grado di fiducia intorno al Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Attestato al 50%. Primo fra tutti i leader, anche dopo il terremoto che ha affondato il suo retroterra politico. Ma è singolare anche l’ampiezza del sostegno espresso al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. In entrambi i casi, si tratta di figure esterne e quasi estranee allo stile e al clima politico dell’epoca. Ma ciò riflette e raffigura bene i contrasti e le tensioni di questa fase. Di questo Paese sospeso e conteso. Tra frustrazione sociale e domanda di sicurezza. Tra insofferenza e domanda di governo. Sempre sul crinale: fra sussurri e grida.