Solo un libro ci emoziona senza carta non c’è magia.

ELENA DUSI,
ROMA
Quando Maryanne Wolf finì di scrivere Proust e il calamaro, nel 2007, rialzò la testa e si sentì cadere le braccia. La neuroscienziata della Tufts University aveva impiegato 7 anni a spiegare cosa succede nel cervello impegnato nella lettura. E nel frattempo la lettura, così come la intendeva lei, era pressoché scomparsa. Con un salto epocale che Wolf accosta al passaggio dalla cultura orale a quella testuale (tanto criticato nel Fedro), oggi accade che anziché immergerci e farci trasportare da un libro preferiamo saltabeccare tra le righe su uno schermo. La differenza conta e Wolf lo spiega in Reader, Come Home (Harper Collins, 272 pagine, 24,99$).
Pizzichi di neuroscienze e consigli per genitori di “bambini digitali” (non è mai troppo presto per iniziare a leggere un libro di carta al proprio bebè) condiscono il canto di nostalgia per quella forma di abbraccio amoroso con il testo che si chiama “lettura profonda”. Accade, in questo stato di grazia riservato alla scrittura su carta, preferibilmente sul divano di casa, rigorosamente senza distrazioni, che il cervello attivi entrambi gli emisferi, con 4 lobi per ciascun emisfero, tutti i suoi 5 strati, dal più ancestrale al più moderno e specializzato nell’astrazione, riuscendo in pochi millisecondi a riconoscere le parole, ricostruire le immagini mentali delle scene descritte, accendersi di empatia per i personaggi, inserire le nuove informazioni nel bagaglio di esperienze e letture precedenti, tracciare collegamenti, interpretare significati nascosti e verificare la coerenza delle nozioni. In una parola: ci fa diventare esseri umani capaci di emozionarsi e “intelligere” (oltre a riconoscere eventuali bufale in circolazione). Wolf sarà l’8 ottobre a Milano per discuterne con i suoi lettori, in occasione dei 100 anni di Vita e Pensiero, la casa editrice di Proust e il Calamaro, che farà uscire Reader, Come Home in italiano il 27 settembre. Una conversazione passeggiando in montagna con Aurelio Mottola, direttore di Vita e Pensiero, è tra l’altro citata da Wolf, preoccupata che il prosciugamento del linguaggio si rifletta sul futuro della cultura in generale. Leggere infatti non rientra fra le attività innate dell’uomo. Imparare, 6mila anni fa, richiese impegno come lo richiede oggi a un bambino di 6 anni. Strutture neuronali primitive come la visione e il linguaggio sono state piegate e adattate al riconoscimento di testi scritti. Il meccanismo, non essendo scontato, può atrofizzarsi per mancanza di esercizio. Wolf l’ha testato su se stessa rileggendo Il giuoco delle perle di vetro di Herman Hesse, adorato in gioventù e oggi diventato insopportabile. Per il cervello impegnato a leggere su uno schermo, il problema è soprattutto mantenere la concentrazione in un ambiente troppo ricco di stimoli. Ogni giorno, cita Wolf, consumiamo 34 gigabytes di informazioni e leggiamo 100mila parole, pari a un intero romanzo. Per non affogare acceleriamo la lettura, saltiamo le righe, sfilacciamo il senso. Ecco perché, leggendo Conan Doyle in digitale, non riusciremo mai a trovare il colpevole.
Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/