Solo Renzi può uscire dall’equivoco.

Dopo l’intervento aspro, esplicito ma anche abbastanza disperato di Luigi Di Maio al termine del colloquio con l’esploratore Fico, un punto è chiaro: i Cinque Stelle hanno gettato sul tavolo in modo brutale il peso dei loro 338 parlamentari. Non solo. Il giovane leader ha posto al Pd, vale a dire l’unico interlocutore rimasto al M5S, quasi un ultimatum, comunque un’alternativa secca: o firma il contratto di governo o si torna al voto. Tema quest’ultimo che riguarda, come è noto, il capo dello Stato. Ma nel momento in cui Di Maio esclude – almeno a parole – l’appoggio a qualsiasi forma di governo istituzionale, “del presidente” o di transizione, di fatto si riappropria del potere politico di sciogliere le Camere. E lo agita come una clava. La pressione sul Partito Democratico è dunque molto forte. Talmente forte che alcuni interrogativi sorgono spontanei.

Primo, Di Maio non può non sapere che su queste basi il Pd è destinato a spaccarsi. In quanto non si tratta solo di avviare un blando confronto, bensì di sedersi a un tavolo, negoziare e poi affrettarsi a formare un governo bicolore (o tricolore, considerando Liberi e uguali) sotto l’egida del movimento fondato da Grillo. Ma un Pd spaccato è anche un partito inservibile ai fini del governo. I numeri sono impietosi: un ipotetico esecutivo M5S-Pd avrebbe bisogno per reggersi della massima compattezza, soprattutto al Senato. Se venisse a mancare anche solo una decina di voti, l’operazione finirebbe per naufragare senza scampo. Secondo, se Di Maio è consapevole di tutto ciò, vuol dire che in piena coscienza egli ha aperto il conflitto decisivo all’interno del Pd. Ha posto in forma indiretta ma cruciale la questione Renzi. Dov’è l’ex segretario, quanto conta ancora, fino a che punto la sua intransigenza nello sventolare la bandiera del “no” è reale? Finora tali aspetti, dal ruolo dell’uomo forte al “che fare” dopo il 4 marzo, sono stati messi fra parentesi dal Pd. Come se non fossero parte essenziale dell’analisi sulle cause e le conseguenze della sconfitta. Ora però il gioco è finito ed è paradossale che a calare il sipario sulla commedia degli equivoci sia proprio il leader del vero partito rivale del centrosinistra.

Tuttavia chi è in grado di garantire quella compattezza del Pd che è indispensabile per sostenere un eventuale governo con il M5S? Strano a dirsi, è proprio Renzi. L’uomo è certo abbastanza spregiudicato per compiere una giravolta e gestire lui in prima persona l’accordo con i Cinque Stelle. Finora lo ha sempre negato e semmai ha lasciato capire che il Pd sarebbe rientrato in campo sotto l’ombrello del governo istituzionale. Ora però i margini si sono fatti stretti e Renzi è di fronte anche lui a un’alternativa: o riprende il partito per guidarlo nella trattativa (e poi nella composizione del governo) ovvero si deve preparare a uno scontro interno da cui potrebbe anche uscire sconfitto. Come dire che il centrosinistra è alla vigilia di un passaggio da cui dipenderà la sua identità futura, forse anche la sua sopravvivenza. C’è ancora un interrogativo. Dove e come si svilupperà il negoziato M5S-Pd? Sulla carta dovrebbe essere un presidente pre-incaricato a occuparsene. Ma la figura di Di Maio, candidato premier da ormai 50 giorni, renderebbe ancora più faticoso per il Pd accettare l’alleanza. L’altra ipotesi è un prolungamento deciso da Mattarella del mandato esplorativo affidato a Fico. È possibile. Ma a quel punto sarebbe evidente che è lui, Fico, e non Di Maio il nome più plausibile per guidare il futuro – e ancora improbabile – governo.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/