«Solo il rap racconta il mondo di oggi»

di Maria Egizia Fiaschetti

Sa di bilancio, tra la parabola esistenziale squadernata in barre — la strofa del rap — e l’humus artistico nel quale è germogliata, dal Sinnò me moro di Gabriella Ferri agli stornellatori-millennial, il nuovo album Virus (Thaurus/Believe) di Noyz Narcos (pseudonimo traducibile in «spacciatore di suoni»), all’anagrafe Emanuele Frasca, 43 anni, romano, rapper di culto tra coetanei e giovanissimi grazie al linguaggio scabro, a tratti radicale, che restituisce la realtà in tutta la sua crudezza.

Il progetto, che arriva a quattro anni da Enemy, disco di platino suonato dal vivo in un tour serratissimo, cavalca la metafora pandemica ovvero delle rime come «una piaga per il sistema che nel tempo ha continuato a mutare per diventare più forte dell’organismo ospite».

Quasi in contemporanea, il resoconto del proprio percorso — dai king americani ascoltati da ragazzino all’esperienza con il Truceklan (gruppo rap capitolino) e alle ultime produzioni — è confluito nel documentario Dope Boys Alphabet, per la regia di Marco Proserpio, disponibile in streaming su Amazon Prime. Le ricostruzioni, sonora e narrativa, si intrecciano in un excursus che, oltre a «fare il punto di tutta la musica immagazzinata finora», indica compagni di strada ed epigoni accomunati da Roma, «filo conduttore nel disagio come nel tenore…».

Quanto ha influito la pandemia sul concept e la realizzazione dell’album?

«Ho scritto molti testi in pieno lockdown. Mi vedevo soltanto con Skinny (il produttore, ndr), ci chiudevamo in studio e lavoravamo. All’inizio non mi è dispiaciuto avere più tempo, mi sono concentrato sulla musica ma non ce la faccio più… Sono dipendente dalla socialità, stare isolato mi manda in paranoia».

In «Welcome back» è incastonata una gemma di Raekwon, tra i membri del newyorkese Wu-Tang Clan, pietra miliare del rap: come è riuscito a coinvolgerlo?

«Avrei sempre voluto inserire ospiti americani nei dischi, ma fino ai primi Duemila, quando arrivava la strofa in inglese, veniva subito skippata (saltata, ndr) per la scarsa comprensione linguistica. Adesso i ragazzi sono più preparati, nonostante quel sound appartenga alla mia generazione volevo far capire ai più giovani da dove veniamo. L’omaggio al Wu-Tang era doveroso, è uno dei gruppi che mi ha più influenzato. Raekwon si è dato parecchio da fare, ha scritto una bella strofa e si è interessato alla mia storia a differenza di molti che, una volta incassato il gettone, si disinteressano di sapere che fine facciano le loro rime».

Quando lei ha iniziato il rap era un genere underground, immaginava che un giorno sarebbe diventato dominante?

«Non avrei mai pensato che diventasse un fenomeno di massa, sebbene fosse inevitabile dal momento che in Italia le influenze americane arrivano con 15 anni di ritardo. Il rap ha successo perché parla di temi quotidiani, del vissuto personale, a differenza del pop che da noi è al 99 per cento “sole, cuore, amore”, “ti porto sulla luna” o “sei la luce dei miei occhi”… È naturale che la gente, stanca dei soliti cliché, si incuriosisca ascoltando un genere che tratta argomenti interessanti. Musicalmente, il linguaggio diretto lo rende anche più accessibile».

«Dope Boys Alphabet» raccoglie materiale video di prima mano, girato da lei agli esordi. Dai filmati traspare la consapevolezza che, un giorno, quei frame sarebbero potuti servire per un progetto più articolato: cosa le suggeriva di documentare le sue avventure con il Truceklan?

«Giravo sempre con la telecamera perché seguivo programmi del genere real tv, una sorta di YouTube. Ero nelle storie Instagram del mio tempo ma senza poterle condividere, speravo di filmare in strada un fatto clamoroso che, grazie alla vendita del video, mi avrebbe reso ricco. In realtà, sentivo che un giorno avrei dovuto realizzare un film per cui sarebbe valsa la pena fare ciò che stavo facendo. Appartengo a una generazione che hanno fatto sentire speciale, libera di seguire le proprie aspirazioni, non per forza destinata a timbrare il cartellino… Purtroppo questo ha danneggiato molti miei coetanei, che hanno buttato al vento la loro vita rincorrendo un sogno che non si è mai realizzato».

Il documentario mostra lo spirito hardcore degli inizi. Perché molte persone con esperienze lontanissime dalle vostre si identificavano con espressioni e contenuti tanto estremi?

«I nostri fan, evidentemente, già sentivano dentro di sé quel caos, anche persone lanciatissime nel lavoro. Il rap della nostra generazione si limitava all’autocelebrazione parlando di flow (la capacità di cantare mantenendo sempre la stessa metrica, ndr) e stile, roba da fighetti. Noi abbiamo iniziato a raccontare la vita vera, quello che vedevamo in strada, intercettando un pubblico molto più ampio degli appassionati di hip hop. Il nostro crew (gruppo, ndr) era molto vario e ciascuno poteva cogliere la sfumatura più rispondente alla propria attitudine».

Dopo «Enemy» lei aveva pensato di smettere, cosa l’aveva portata a prendere una decisione così drastica?

«Non mi rispecchiavo più nella musica che circolava nel nostro ambiente, aveva preso una deriva troppo diversa da come era nata. Sentivo di non avere nulla a che fare con i giovani pseudo trapper che strizzano l’occhio al pop, ma dopo il successo di Enemy mi sono dovuto ricredere. Ho pensato: “Se questa roba piace ancora alla gente rimbocchiamoci le maniche, ho ancora delle idee”».

L’anthem di uno dei brani del nuovo disco è «Tutti vogliono il dope boy», come riesce a gestire la celebrità?

«Tutti vogliono la foto con il dope boy, un pezzettino di te… Quanti mi hanno scritto per dirmi che gli ho salvato la vita, che un loro amico si è risvegliato dal coma ascoltando la mia musica. A me non è mai saltato in mente di andare a conoscere un cantante dopo un concerto, adesso invece vogliono sapere tutto anche a rischio di rimanere delusi, non riescono a separare la persona dall’artista».

 

 

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