Sindrome Bersani se il flop del candidato travolge il leader

di Francesco Merlo
Oggi è il giorno in cui gli achei usciranno dal ventre del cavallo, il giorno della Rivelazione e della fine della guerra di posizione. Soprattutto la sinistra ci arriva con il nodo alla gola: da una settimana infatti Enrico Letta si guarda allo specchio e si vede con la faccia di Bersani inseguito dal fantasma di Prodi. La sindrome Bersani è terribile perché prevede il doppio fallimento, quello del king maker e quello del candidato, come appunto nel 2013, quando prima Marini e dopo Prodi, candidati del Pd, furono impallinati dai solti ignoti del Pd.
E Bersani, – ricordiamolo – ormai smarrito tra scogli da asciugare, bambole da pettinare e giaguari da smacchiare, a noi giornalisti che gli chiedevamo “come va?” rispondeva “boh”, una consonante, una vocale e un’acca muta che dolorosamente, nove anni dopo, di nuovo riassumono la perdita del controllo, ma di Letta questa volta. Lo smarrimento è quel presentire che infiamma i nervi, è quel battito del cuore che insegue il cervello. La sindrome Bersani, che ha impedito a Letta di fare nomi, lo ha invece riavvicinato al nemico di sempre, al c’eravamo tanti armati Matteo Renzi che, da core ‘ngrato a core mio, gli sta ora facendo da ponte con Matteo Salvini per quell’appuntamento che mette alla prova l’ansia di entrambi: “Se tu non arrivi, io non esisto” canta l’esistenzialista Ornella Vanoni. Un appuntamento per esistere, dunque. Ecco la politica: l’appuntamento per trasformare l’avversario in complice, come la luce che esiste perché ha un appuntamento con il buio.
Anche la destra è spaventata, ma dallo “stallo messicano”, lo stesso che la portò alla clamorosa sconfitta delle amministrative. Fateci caso: sono arrivati a Marcello Pera come arrivarono a Enrico Michetti, e ditemi se nella scelta di Elisabetta Casellati non c’è la stessa naïveté che portò Salvini a puntare su Luca Bernardo come sindaco di Milano. Lo stallo messicano era un topos dei film di Sergio Leone. E infatti sembra di sentire Moricone con i tre pistoleri paralizzati nel duello-triello perché si puntano tra loro e perciò sono puntati: Meloni punta Salvini che punta Berlusconi che punta Meloni e dunque non ci sono spari, ma solo il marranzano di Mortimer Lee Van Cleef, il carillon dell’Indio Gian Maria Volonté, e il flauto del Monco Clint Eastwood, che dopo il fallimento dell’Operazione Scoiattolo è con la flebite all’ospedale San Raffaele, ma ha mandato Tajani da Mario Draghi: sciòn sciòn.
Ma oggi si cambia musica, oggi si sparano voti per davvero, oggi si rischia per davvero. Basta ammazzare nomi soltanto pronunciandoli: un soffio e cascava Marcello Pera, un sibilo e cascava Casellati, e così via. Da oggi la filosofia non sarà più quella del “Così via” (Bollati Boringhieri, Paolo Virno): da Pierferdinando Casini a Cassese e così via, da Letizia Moratti al giudice Nordio e così via, tutti si moriva a credito.
E si potrebbe riempire un quaderno con i “così via” di Salvini, il solo che si agita sul trespolo in mezzo ai giornalisti e ai cameramen che gli si stringono a semicerchio, da prefica, da condannato dalla ragione di Stato alla fatica del governare il caos. Ma più va avanti e più si smarrisce nel labirinto. “È un bidone” dice il vecchio Bertinotti. “È ubriaco” dicono persino i leghisti. Di sicuro, più si si muove e più si paralizza come nelle sabbie mobili, elogiando persino la propria “responsabilità”, la propria “pazienza” nella grande commedia delle carte, che è la metafora più abusata: “carte scoperte” e dunque da “bruciare”, Franco Frattini e Elisabetta Belloni e Giuliano Amato, ma anche carte coperte, Massolo e Martino, Mario Segni e Rutelli… Ma nella “partita a carte” nessun altro capopartito ha avuto carta bianca neppure dal proprio partito. Dunque Letta non ha scoperto le carte per la sindrome Bersani che appunto profetizza che i candidati del Pd vadano tutti a finire a carte 48, e figuriamoci se capitasse a Mario Draghi contro cui nella dissipazione di Montecitorio si sta consumando la rivolta dei mediocri.
Come è facile capire, non esiste la carta vincente, non c’è ancora il Presidente che davanti ai suoi grandi elettori giurerà “di essere fedele alla Repubblica e di osservarne lealmente la Costituzione”, di cui esistono ben tre copie originali firmate da Enrico De Nicola, 19 pagine di carta (vera) conservate negli archivi storici del Quirinale, della Camera, e nell’Archivio centrale dello Stato che dell’Italia sono la memoria di carta.
E nella grande commedia delle carte, c’è anche la carta degli scatoloni che Mattarella voleva esibire come il punto di non ritorno e sono invece diventati il tirabaci di carta, che ha fatto di lui il più votato nei giorni del tempo sospeso quando il quorum non era ancora un battiquorum perché era irraggiungibile. E chissà che non diventi un vero ri-candidato, quando dovessero fallire tutti i veri candidati che da oggi offriranno finalmente il petto esponendosi ai soliti ignoti che non si sono riuniti mai, non hanno gruppo parlamentare e non troverebbero posto neppure nel gruppo misto, i franchi tiratori, che comunque vada, già stasera saranno famosi, addirittura famosissimi, ma solo perché nessuno mai li conoscerà.
E potrebbero diventare famosi per “non” avere sparato. E magari, già stasera, o domani o domenica i diavoli diventerebbero angeli, sempre misteriosi, ma comunque protagonisti dell’elezione del capo dello Stato, il tredicesimo, che l’Italia in stato d’eccezione non solo per pandemia attende non come il suo presidente ma come il suo Decisore, quello di Max Weber o quello di Carl Schmitt, il suo nuovo Garibaldi, il suo “qui ci vuole un uomo”. E potrebbe anche essere “un uomo composto”: un omerico Draghi che, come Enea, sulla spalle porta Mattarella, il suo Anchise.
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