Silvia, Greta, Carola e la sindrome della Gioconda

È l’antica pulsione a lordare ciò che è pulito. Un disturbo psichico che sembra assai diffuso in Italia, quasi un tratto del carattere nazionale: una sottile meschinità che si manifesta più virulenta non in presenza di un male, bensì quando si palesa un bene
La si può chiamare “sindrome della Gioconda”: o di Ugo Ungaza Villegas, il turista boliviano che, nel 1956, scagliò un sasso contro il ritratto di Monna Lisa, custodito presso il museo Louvre di Parigi. Quel disturbo psichico sembra assai diffuso in Italia, quasi un tratto del carattere nazionale: una sottile meschinità che si manifesta più virulenta non, come si potrebbe supporre, in presenza di un male, bensì quando si palesa un bene.

Un bene vero o presunto ma comunque percepito come “virtuoso” da una parte dell’opinione pubblica, quale la tutela dell’ambiente o il salvataggio di naufraghi o la liberazione di una volontaria della cooperazione internazionale.

Su tutte le ragioni che hanno prodotto quelle tre circostanze e le loro protagoniste (Greta Thunberg, Carola Rackete, Silvia Romano) il giudizio è assai controverso, ma è indubbio che in quelle situazioni si manifesti l’esercizio di una virtù. Ed è qui che scatta la sindrome della Gioconda. Per una serie di motivi, quella che appare a tanti una virtù risulta, ad altri, insopportabilmente offensiva. E già questo è singolare. Basterebbe non seguirne l’esempio e non rispettarne il fondamento etico, se non condiviso: e, invece, la sindrome della Gioconda alimenta prima la lutulenta prosa dei social, poi quella, appena più controllata dei giornali di destra. Si diffonde, così, una velenosa tendenza a “sporcare tutto”, tanto più irresistibile quanto più il bersaglio del fango da gettare appare lindo e incorrotto.

È l’antica pulsione a lordare ciò che è pulito (un muro, un’immagine, una reputazione), a degradare ogni persona e ogni cosa al livello più basso, a omologare tutto nell’infamia e nel disgusto universali. È il piacere perverso dello sfregio che si esprime nello sfigurare ciò che sembra perfetto agli occhi di troppi (e si avverte questo come una oltraggiosa ingiustizia). Sia chiaro: non va dimenticato nemmeno per un istante che, all’origine di tutto, ci sono i criminali comuni e quelli jihadisti che hanno sequestrato e umiliato Silvia Romano.

Ma, proprio per questo motivo, perché aggiungere ulteriore dileggio a una simile sofferenza? Non si può ignorare, poi, che – sarà un caso? – oggetto di tanta violenza verbale siano state tre donne alle quali sono stati attribuiti tratti immediatamente disturbanti: una qualche assenza nello sguardo, che scivola nei sintomi dell’Asperger, all’adolescente svedese, una certa “selvaticheria” alla comandante della Sea Watch-3 e, alla cooperante milanese, fattezze che potrebbero nascondere il “pancione” di una gravidanza in corso. Tutto ciò, a prescindere dalle imputazioni più gravi rivolte alla Romano: il versamento di una somma per il riscatto (quando si sa che tutti i Paesi pagano un prezzo anche economico, compresi quelli che, come Usa e Gran Bretagna, lo negano) e la conversione all’Islam.

Così, l’abbigliamento della Romano non è semplicemente quello della tradizione femminile somala, ma diventa la divisa del terrorismo islamista. Una persona colta, qual è il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, scrive che è come se un ex internato in un lager tornasse in patria “indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista”. Il sillogismo è, ahinoi, traballante. Piuttosto, è come se quell’ex internato tornasse a casa indossando abiti di foggia tedesca: cosa niente affatto deplorevole.

E la scelta della conversione, fino a prova contraria, non comporta l’adesione al terrorismo.

Perché mai dovremmo accettare una simile equazione, noi, cittadini di uno Stato dove la libertà di culto si è affermata, a prezzo di fatiche e dolori, come principio irrinunciabile?

In generale, è difficile comprendere quale società immaginino i ruvidi spregiatori della sprovvedutezza (che pure c’è stata) di Silvia e della sua associazione e dell’idealismo di quanti ne condividano i valori. Ritenere superflue e addirittura nocive le opzioni morali di una gioventù che, come tutte le gioventù di tutte le epoche, esprime, se pure ingenuamente, sentimenti di condivisione e voglia di cosmopolitismo, è un errore madornale e, alla resa dei conti, diseconomico. Una democrazia liberale, organizzata e intelligente, non può fare a meno di quei beni immateriali, preziosi seppure deperibili.

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