Un bene vero o presunto ma comunque percepito come “virtuoso” da una parte dell’opinione pubblica, quale la tutela dell’ambiente o il salvataggio di naufraghi o la liberazione di una volontaria della cooperazione internazionale.
Su tutte le ragioni che hanno prodotto quelle tre circostanze e le loro protagoniste (Greta Thunberg, Carola Rackete, Silvia Romano) il giudizio è assai controverso, ma è indubbio che in quelle situazioni si manifesti l’esercizio di una virtù. Ed è qui che scatta la sindrome della Gioconda. Per una serie di motivi, quella che appare a tanti una virtù risulta, ad altri, insopportabilmente offensiva. E già questo è singolare. Basterebbe non seguirne l’esempio e non rispettarne il fondamento etico, se non condiviso: e, invece, la sindrome della Gioconda alimenta prima la lutulenta prosa dei social, poi quella, appena più controllata dei giornali di destra. Si diffonde, così, una velenosa tendenza a “sporcare tutto”, tanto più irresistibile quanto più il bersaglio del fango da gettare appare lindo e incorrotto.
È l’antica pulsione a lordare ciò che è pulito (un muro, un’immagine, una reputazione), a degradare ogni persona e ogni cosa al livello più basso, a omologare tutto nell’infamia e nel disgusto universali. È il piacere perverso dello sfregio che si esprime nello sfigurare ciò che sembra perfetto agli occhi di troppi (e si avverte questo come una oltraggiosa ingiustizia). Sia chiaro: non va dimenticato nemmeno per un istante che, all’origine di tutto, ci sono i criminali comuni e quelli jihadisti che hanno sequestrato e umiliato Silvia Romano.
Ma, proprio per questo motivo, perché aggiungere ulteriore dileggio a una simile sofferenza? Non si può ignorare, poi, che – sarà un caso? – oggetto di tanta violenza verbale siano state tre donne alle quali sono stati attribuiti tratti immediatamente disturbanti: una qualche assenza nello sguardo, che scivola nei sintomi dell’Asperger, all’adolescente svedese, una certa “selvaticheria” alla comandante della Sea Watch-3 e, alla cooperante milanese, fattezze che potrebbero nascondere il “pancione” di una gravidanza in corso. Tutto ciò, a prescindere dalle imputazioni più gravi rivolte alla Romano: il versamento di una somma per il riscatto (quando si sa che tutti i Paesi pagano un prezzo anche economico, compresi quelli che, come Usa e Gran Bretagna, lo negano) e la conversione all’Islam.
Così, l’abbigliamento della Romano non è semplicemente quello della tradizione femminile somala, ma diventa la divisa del terrorismo islamista. Una persona colta, qual è il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, scrive che è come se un ex internato in un lager tornasse in patria “indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista”. Il sillogismo è, ahinoi, traballante. Piuttosto, è come se quell’ex internato tornasse a casa indossando abiti di foggia tedesca: cosa niente affatto deplorevole.
E la scelta della conversione, fino a prova contraria, non comporta l’adesione al terrorismo.
Perché mai dovremmo accettare una simile equazione, noi, cittadini di uno Stato dove la libertà di culto si è affermata, a prezzo di fatiche e dolori, come principio irrinunciabile?
In generale, è difficile comprendere quale società immaginino i ruvidi spregiatori della sprovvedutezza (che pure c’è stata) di Silvia e della sua associazione e dell’idealismo di quanti ne condividano i valori. Ritenere superflue e addirittura nocive le opzioni morali di una gioventù che, come tutte le gioventù di tutte le epoche, esprime, se pure ingenuamente, sentimenti di condivisione e voglia di cosmopolitismo, è un errore madornale e, alla resa dei conti, diseconomico. Una democrazia liberale, organizzata e intelligente, non può fare a meno di quei beni immateriali, preziosi seppure deperibili.