Se la paura diventa malattia

di Gianrico Carofiglio
La Logica di Port-Royal è un testo filosofico opera di due giansenisti francesi, Antoine Arnauld e Pierre Nicole, che lo pubblicarono, anonimo, nel 1662. In questo trattato i due autori si proponevano di studiare le regole della logica per giungere ad enunciare le regole del pensiero.
Perché ci interessa questo lavoro di due lontani (e sconosciuti, al di fuori della cerchia degli specialisti) filosofi francesi? Perché in esso viene esaminato per la prima volta il tema dell’asimmetria fra paure e pericoli.
In particolare nel trattato i due autori si occupano della paura dei fulmini e della sproporzione fra tale paura, spesso vivissima, e il pericolo oggettivo, modestissimo, di essere effettivamente colpiti da una saetta.
Nel mondo in cui viviamo — complesso e per molti aspetti indecifrabile, ben più di quello del diciassettesimo secolo — quello che molti di noi credono sulla consistenza dei pericoli ha poco a che fare con i pericoli oggettivi. In una duplice direzione: ci preoccupiamo per eventi o fenomeni assai improbabili e al tempo stesso, proprio per la medesima ragione (l’incongruenza fra paure e rischi), ci esponiamo a gravi pericoli senza alcuna consapevolezza.
Un mio amico ha, come tanti, paura di volare e dunque per nessuna ragione sale su un aereo, notoriamente il mezzo di trasporto più sicuro che esista. Però viaggia alla guida della sua potente vettura, spesso superando i centocinquanta chilometri all’ora, convinto di avere tutto sotto controllo ma in realtà esponendosi a un rischio di gran lunga maggiore rispetto a quello, minimo, del volo moderno.
Se il rischio è volontario ci sembra più basso e governabile; se ci viene imposto da altri o non si ha la possibilità di controllarlo — come nel caso delle epidemie — viene percepito, soggettivamente, con molto maggiore intensità.
Le influenze normali producono oltre seimila decessi all’anno per cause dirette e indirette. L’inquinamento dell’aria produce da cento a duecento decessi al giorno in Italia, eppure nessuno pare preoccuparsi di questo rischio, rispetto a quelli connessi all’attuale epidemia. La possibilità di entrare in contatto con un virus misterioso mette in moto una preoccupazione diversa e, per quanto possa apparire assurdo, maggiore rispetto a quella di respirare particelle cancerogene. Questo è uno dei tanti segni della nostra irrazionale relazione con il mondo e l’incertezza.
Parlando di paura viene naturale passare alla questione del coraggio, individuale e collettivo; dei cittadini e di chi ha responsabilità pubbliche. Certo non è una manifestazione di coraggio porre in essere reazioni sproporzionate, formulare dichiarazioni non sempre composte al solo scopo di sottrarsi all’eventuale futura contestazione di non aver fatto tutto quello che era necessario.
Il coraggio è una dote del carattere ma anche dell’intelligenza: esso consiste fra l’altro nella capacità di entrare in un rapporto razionale ed equilibrato con il pericolo e il rischio, gestendoli nei limiti in cui questo è possibile.
In questa accezione di virtù dell’intelligenza, il coraggio assomiglia molto a quella che John Keats chiamava «Capacità Negativa». Questa, per il poeta inglese, era la dote fondamentale dell’uomo in grado di conseguire risultati autentici, di risolvere davvero i problemi e superare le difficoltà. Keats chiamò negativa questa capacità per contrapporla all’atteggiamento di chi affronta i problemi alla ricerca di soluzioni immediate, nel tentativo di piegare la realtà al proprio bisogno di certezze.
«Vi è capacità negativa quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti… perché incapace di rimanere appagato da una mezza conoscenza». Per Keats, accettando l’incertezza, l’errore, il dubbio è possibile osservare più in profondità, cogliere le sfumature e i dettagli, porre nuove domande, anche paradossali, e dunque allargare i confini della conoscenza e della consapevolezza. Dunque risolvere i problemi.
Il senso di questa riflessione, riportato alle vicende odierne, è che bisogna affrontare la vita accettandone l’ignoto e la complessità. Bisogna affrontare il rischio prendendo tutte le precauzioni sensate (quelle suggerite dai veri esperti) ma non quelle insensate, generate da un bisogno immaturo e pericoloso di governare l’ingovernabile, cioè l’incertezza. Bisogna usare la paura come uno strumento di lavoro per cambiare le cose e non lasciare invece che diventi una forza incontrollabile e distruttrice.
Viene naturale chiudere queste riflessioni evocando la frase forse più celebre sulla paura, quella di Franklin D. Roosevelt pronunciata durante il suo discorso inaugurale, riferendosi alla Grande Depressione. È una frase che spesso è stata archiviata come un semplice gioco di parole. Il suo significato è però assai più ricco, va molto al di là dell’artificio linguistico. Il concetto espresso da Roosevelt è che, oggi come non mai, dobbiamo temere la paura — e combatterla e sconfiggerla con le armi dell’intelligenza — perché dalla paura non governata derivano conseguenze rovinose. Materiali e morali.
La paura può essere essa stessa una malattia, oppure uno strumento dell’intelligenza per affrontare i pericoli e sconfiggerli. La scelta fra l’una e l’altra possibilità, inutile dirlo, tocca a noi.
Gianrico Carofiglio, scrittore. Il suo ultimo libro è “La misura del tempo” (Einaudi, 2019)
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