La lezione (diversa) delle scissioni a sinistra

 

di Paolo Franchi

 

Per l’ennesima volta ci è stato ricordato in questi giorni che la sinistra nutre da sempre, in forme quasi compulsive, uno «spirito di scissione» che la condanna in partenza alla sconfitta. Vero o, quanto meno, abbastanza vero. Ma l’addio di Matteo Renzi al Pd, comunque lo si giudichi, con questa storia molto novecentesca c’entra poco o nulla. E dunque a tirare in ballo adesso le scissioni che hanno affollato la storia della sinistra si rischia di aggiungere confusione alla confusione. Le scissioni (o almeno: le grandi scissioni) nella sinistra appartengono al secolo scorso. Non derivarono da beghe intestine, che pure non mancarono, né da calcoli di opportunità politica. Giuste o sbagliate che fossero, maturarono tutte su questioni di estrema rilevanza, che oggi definiremmo identitarie. Investirono grandi partiti organizzati. Coinvolsero non solo i loro promotori, ma centinaia di migliaia di militanti e di compagni di strada, straziandone le carni e scavando fossati che molto spesso si sarebbero rivelati incolmabili, come se nemmeno il tempo riuscisse a lenirli. Influenzarono, eccome, direttamente o indirettamente, il corso della storia nazionale. Fu così, anche se il tema è rimasto a lungo un tabù, nel 1914, quando il direttore dell’Avanti! Benito Mussolini, uno dei capi del socialismo rivoluzionario italiano, fu espulso dal Psi per il suo conclamato interventismo: la pace o la guerra. Fu così nel 1921, a Livorno, quando socialisti e comunisti si divisero senza possibilità di appello sull’adesione o meno ai 21 punti del Comintern, il più stringente dei quali era la richiesta (sotto forma di diktat) di cacciare dal partito i riformisti fedeli a Filippo Turati: con Mosca senza condizioni o no. Fu così a Roma, Palazzo Barberini, 1947, quando Giuseppe Saragat (e con lui i vecchi riformisti della Critica Sociale, ma pure molti giovani, rivoluzionari, sì, ma fieramente antistalinisti) lasciarono la vieille maison socialista rifiutandosi alla prospettiva del nascente Fronte Popolare: subalternità nei confronti del Pci o autonomia socialista. E fu così, seppure in scala minore, nel 1963, quando una parte importante della sinistra socialista (i cosiddetti «carristi» che nel 1956 si erano schierati con l’Unione Sovietica), ma pure personalità del calibro di Lelio Basso e Vittorio Foa, che non si erano mai distinte per filosovietismo acritico ruppero con il Psi e dettero vita al Psiup: «unità di classe» all’ opposizione con i comunisti o centro -sinistra.

Nessuna di queste scissioni ebbe un esito felice. La prima contribuì a spianare la strada non alla rivoluzione proletaria, ma al fascismo, e il Pci per come lo abbiamo conosciuto nacque sì nel 1921 ma fu di fatto rifondato da Palmiro Togliatti au retour de Moscou nel 1944. La seconda non gettò le basi di una moderna forza riformista, ma di un partito, il Psdi, che, nonostante il grande prestigio del suo fondatore, non scrisse certo le pagine più gloriose della Repubblica. La terza, sostenuta e sovvenzionata dall’Unione Sovietica, ma osteggiata da Palmiro Togliatti, dette vita a un partitino, il Psiup, che dopo un effimero successo nelle elezioni del 1968, si sciolse già nel 1972. Ma è incontestabile che tutte e tre ebbero un loro perché politico e ideale ben chiaro, prima ancora che agli osservatori, ai militanti e agli elettori. Si ruppero, o persero pezzi importanti, dei partiti che erano, nei gruppi dirigenti e alla base, delle comunità. Si spezzarono, o si incrinarono profondamente, legami politici e personali antichi, stretti, in molti casi, nella clandestinità, nell’esilio e nella Resistenza. Chi sostiene che la sinistra italiana, nata settaria, si è sempre appassionata alle sue divisioni e alle sue lotte intestine molto più che alle sue (rarissime) vittorie dice il vero. Quelle divisioni e quelle lotte intestine, però, appassionanti lo erano davvero.

Ma tutto questo è, appunto, Novecento. Il nuovo millennio ha tolto di mezzo, almeno a sinistra, l’incomodo del partito politico di massa, portatore di una sua visione, o almeno di una sua intuizione del mondo. E lo ha sostituito con un partito liquido, o forse addirittura gassoso, che ha un senso finché funziona da struttura di servizio del capo, ma può benissimo essere abbandonato al suo destino dal capo medesimo, se e quando questi, caduto in disgrazia, decide di giocare in un imprecisato altrove le proprie carte. In tutto questo c’è anche, per carità, qualcosa di positivo: nessun settarismo, nessuna guerra per impossessarsi delle sedi, niente accuse reciproche di tradimento degli ideali o di collusione con il nemico. Solo a Napoli, apprendiamo dal Mattino, all’addio di Renzi ha corrisposto un piccolo boom di richieste di iscrizione al Pd: chissà se saranno evase, visto che non è chiarissimo come, dove e quando ci si possa iscrivere a questo partito. Sono (fortunatamente) lontani i tempi in cui le sezioni comuniste reggiane annunciavano festanti di aver reclutato, come si diceva allora, centinaia di nuovi iscritti in risposta alla secessione «titoista» di Valdo Magnani e Aldo Cucchi, rappresentati come due pidocchi annidati nella criniera di un purosangue. Non succederà. Ma, per paradosso, l’aspirante Macron che esce oggi potrebbe benissimo tornare domani, se le circostanze glielo consentissero. E chi resta, come i parlamentari renziani che hanno deciso di non lasciare il Pd (chissà se in accordo, in dissenso o in rottura con il loro leader) potrebbe benissimo andarsene tra qualche tempo. Mi torna alla mente quello che disse ridendo amaro, a proposito della nascente Leu, Alfredo Reichlin pochi giorni prima di morire: che ci vuoi fare, neanche le scissioni sono più come quelle di una vota.

 

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