«Non ci sono le condizioni per far ripartire la scuola a settembre»: questo è l’allarme lanciato dalle organizzazioni sindacali.
È una forzatura: pur con mille problemi – a meno di una nuova, drammatica ondata del virus – la scuola riaprirà come previsto. Quel che i sindacati vogliono è attirare l’attenzione con l’obiettivo di fare assumere in ruolo nuovi docenti, con procedure eccezionali che sarebbero giustificate dall’emergenza Covid.
Nonostante l’allarmismo, su un punto hanno ragione: il tempo per preparare il rientro a scuola è poco e il ritardo grave. Le linee guida del ministero sono uscite troppo tardi, solo alcuni uffici regionali hanno fornito indicazioni più specifiche e il resto è sulle spalle delle scuole. Siamo a fine luglio e molti presidi ancora non sanno se riusciranno a fare entrare tutti in classe oppure avranno bisogno di altri spazi. Anche se – come pare – i problemi riguardassero solo il 10% delle classi, parliamo comunque di centinaia di migliaia di studenti. Le amministrazioni locali, che con le scuole devono collaborare, sembrano a loro volta incerte e in ritardo. Il commissario all’emergenza si è lanciato ora ad acquistare un numero enorme di banchi, fra cui quelli famigerati a rotelle. Se il buongiorno si vede dal mattino, c’è di che preoccuparsi per come sarà speso il fiume di soldi europei che dovrebbe riversarsi sulla scuola italiana.
Le ambiguità dei sindacati vengono a galla sul tema degli incrementi di organico.
Di bidelli e collaboratori scolastici a settembre ne serviranno certamente più dei 200.000 attuali (un numero già senza eguali in Europa) per fare fronte a compiti di sorveglianza e di igienizzazione, in parte nuovi e di sicuro più intensi.
Sui docenti, invece, si confondono le acque. Davvero la riapertura sarebbe più facile se si fossero assunti i 32.000 docenti del concorso straordinario solo per anzianità e titoli, senza prova alcuna? Ricordiamo che l’ingresso in ruolo di 24.000 di questi era previsto ben prima del Covid: con l’emergenza c’entra poco né si vede quale vantaggio ci sia per gli apprendimenti degli studenti rinunciare a una sia pure blanda verifica delle capacità di chi insegnerà loro nei prossimi anni. Peggio ancora fa chi – le sigle più populiste – approfitta della situazione per chiedere l’assunzione di altre decine di migliaia di precari, senza concorsi, senza verifiche, senza nulla a rassicurare che serviranno dopo l’emergenza.
Attenzione a distinguere due questioni diverse. Servono più insegnanti per il prossimo anno scolastico? Probabilmente sì, nelle situazioni dove si dovranno dividere classi (o lavorare in gruppi molto piccoli come nella scuola dell’infanzia), garantire il tempo pieno, modificare orari e organizzazione didattica. Si potrà chiedere agli insegnanti attuali la disponibilità a fare ore in più, ovviamente retribuite, oppure assumere a tempo determinato quanti servono per il tempo che servono. Questa è la logica dell’emergenza.
Servono più insegnanti per la scuola italiana del dopo Covid, per rinnovare la didattica e migliorare gli apprendimenti? Probabilmente no. La priorità non sta nei numeri. Lo suggeriscono la riduzione della popolazione studentesca in Italia (oltre un milione in meno entro il 2030), il basso rapporto fra insegnanti e studenti (uno ogni dieci) e classi non particolarmente numerose, a dispetto delle fake news sulle classi pollaio. Né la ricerca educativa ci dice che in classi molte piccole si impari meglio che in quelle molto grandi. Parlando di docenti, le priorità sono la qualità didattica – sapere le cose, ma anche saperle insegnare – e la capacità di attrarne di validi nelle aree dove oggi mancano (matematica, scienze, sostegno). Ciò si ottiene cambiando un modello di formazione, reclutamento e carriera decotto, non assumendo scriteriatamente con l’argomento dell’emergenza Covid.
*Direttore Fondazione Agnelli