Salvatores: “Il Covid ha cambiato tutto, ma tutto è uguale a prima”

All’esperienza artistica si è aggiunta quella privata, di persona positiva al Covid: «In genere sono molto spaventato dalle malattie e quindi sono sempre attentissimo, ho girato un film tenendo la mascherina fissa, anche se facevamo tamponi tutti i giorni, e ora, due mesi dopo, mi sono beccato il virus. Siamo tutti vulnerabili, dobbiamo smetterla di essere arroganti, non siamo i proprietari di questo pianeta, non siamo noi il centro del mondo». Da solo, nella casa milanese, «senza febbre e senza sintomi», tra una riflessione e un piatto di pasta cucinato grazie agli insegnamenti materni, Salvatores oscilla tra fatalismo di marca partenopea («da essere umano mi sento, come diceva Eduardo, “sotto il cielo”, siamo solo piccole cose in un disegno molto più grande») e sana indignazione civile: «Mi arrabbio molto quando sento dire stupidaggini negazioniste, e mi arrabbio molto con i nostri politici che dovrebbero prendersi la responsabilità di quello che dicono. Se sei un politico, come diceva mio padre, dovresti dare il buon esempio».

Il Covid acuisce le incongruenze, alza il tono della protesta popolare: «Non è possibile che un manager, che nella vita si è occupato di tutt’altro, venga messo a capo di un ospedale importante solo perché in tasca ha una certa tessera di partito». I danni collaterali della pandemia, prosegue l’autore premio Oscar, sono già evidenti: «Quello che oggi temo di più è la rabbia sociale. Non voglio fare il buonista, ma sono sempre i poveri a pagare più degli altri. Spero si capisca sempre meglio che non si può continuare anteponendo a tutto la logica del potere e del denaro. Il paniere, mostrato nel film, con su scritto “chi non ha prenda e chi ha lasci qualcosa” è un simbolo importante».

Quell’ansia di rinascita, quel senso di solidarietà diffusa, che attraversano ogni immagine del film e ne acuiscono la forza drammatica, sembra, già adesso, un miraggio: «Mi auguro che non finisca col prevalere quella che gli esperti chiamano “Covid fatigue”, che cioè gli italiani si stanchino, e non riescano a tenere alta la guardia». Il tema della natura, con le riprese sugli animali che occupano gli spazi urbani, è l’altro filo conduttore del racconto: «Le condizioni climatiche del pianeta, il contatto dell’Homo sapiens con forme di vita selvaggia da cui prima era estromesso hanno sicuramente favorito la diffusione del virus. Sarebbe bello se riuscissimo a imparare qualcosa da tutto questo, ma, purtroppo, non impariamo mai niente».

La vita resiste attraverso i corpi, quasi sempre protagonisti dei video montati nel film collettivo. Corpi di danzatori che volteggiano tra le pareti di casa, di anziani che provano a sfidare i rischi dell’immobilità, di ginnasti frustrati, di ragazzi che giocano a ping-pong usando padelle al posto delle racchette: «Non ho mai fatto film erotici, ma penso sia utile affidarsi all’esperienza diretta della nostra pelle». Nonostante tutto, osserva Salvatores, è giusto che prevalga un ottimismo capace di guardare oltre: «La figlia di Diego che ho visto crescere», dice il regista con un sorriso, riferendosi all’erede dell’amico Abatantuono, «è incinta del terzo figlio. Quando l’ho saputo, ho detto “ma siete matti?”, poi ci ho ripensato. Ma sì, porca miseria, la vita va avanti».

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