“Alle diciotto comincia il giudizio universale!”. Una delle scene più surreali del cinema, all’inizio del film scritto da Cesare Zavattini per Vittorio De Sica nel 1961, è stata ieri surclassata dall’annuncio, pure quello previsto per le 18, del verdetto della piattaforma Rousseau. Là una voce fuori campo, dall’alto dei cieli, qui una finestra a qualche metro da terra, nel centro di una città senza miracolo, Milano. Non c’è mai partita: la realtà, anche senza sudare per riuscirci, batte sempre la fantasia.
Nel film di De Sica pure gli scettici e gli atei si convincevano lentamente che l’evento senza ritorno stesse davvero per accadere e si comportavano di conseguenza. Ma erano poveracci: truffatori, azzeccagarbugli, nobili decaduti, mariti cornuti. Ieri, ad attendere il giudizio alle 18, c’erano le massime istituzioni dello Stato, i capi di partito, i giornalisti in folle che non sapevano dove andare. Non c’era una valle di Giosafat, verso la quale incamminarsi per assistere al gran finale. Tutto era smaterializzato, invisibile. Occorreva letteralmente fede per credere che stesse accadendo. La certificazione di un notaio sopravvissuto alla battaglia delle arance di Ivrea era soltanto un atto formale, un momento del cerimoniale, anch’esso nascosto. La materia, quella era altra: la stessa dei sogni, delle utopie di democrazia diretta.
Matematicamente parlando ci si è trovati di fronte a un postulato, un principio indimostrato la cui validità si ammette a priori allo scopo di fornire la spiegazione di determinati fatti (la creazione di un governo con il nemico di ieri) o di costruire una teoria (che si tratti di cosa buona e giusta). Non era un teorema, nessuno si è incaricato di una dimostrazione logica alla lavagna. Non c’era neppure, una lavagna, come quella su cui si segnano i voti con il gessetto alla finale del premio Strega, anche se tutti sanno dall’inizio chi ha vinto e si tratta soltanto di stabilire di quanto, senza umiliare nessuno.
La crisi era iniziata nel modo più corporeo mai registrato. Era un stata un borborigma nella pancia esposta di Matteo Salvini; una mano posata sulla sua spalla da Giuseppe Conte, per tenerlo fermo mentre lo colpiva; un ghigno, da joker ripescato dal mazzo, di Matteo Renzi. Si è conclusa nell’impalpabile dominio di un server, nell’ipotesi aleatoria di un crash, senza neppur vedere una rotellina che gira man mano che i punti aumentano, si blocca, riparte. Si è celebrata nel gioco infantile del “facciamo che”: adesso noi ci sposiamo e tu mi dici di sì, ma senza un altare o un codice civile e soprattutto senza testimoni. Niente, eppure: “Alle diciotto il giudizio universale!”. Qualcuno, al Quirinale, ha aspettato in silenzio, con la coscienza a posto, pochi o nessun peccato da rimettere. Qualcun altro, in parlamento, ha cercato di convertirsi sulla soglia, con dichiarazioni benevole, da sovrapporre in una futura ricerca su Google a quelle passate, in cui queste procedure erano considerate, eufemismo, esercizi circensi.
Ogni proclamazione ha una sede in cui aspettarne l’esito: il Viminale, il ninfeo di villa Giulia, il retropalco dell’Ariston. Per questo giudizio non c’era indirizzo. Le dirette televisive hanno mostrato cronisti in un androne, scacciati dal custode a fine turno: “Alle diciotto e trenta se ne va il portiere!”. Altri a Montecitorio o nelle strade di Roma a raccattare pareri sul futuro governo, come se non potesse davvero svanire alle diciotto. Perché questo pensiamo noi umani: che la fine sia un incidente di percorso, dopodiché tutto riprende come prima. Infatti nel film di De Sica scende un diluvio, poi spiove, il giudizio universale si interrompe e si va a ballare alla festa del duca. Anche ieri, un attimo dopo il verdetto, si è riaccesa la musica e tutti di nuovo giocavano al totoministri, danzando da una casella all’altra. La giuria di qualità ha lavorato per giorni, ma ha deciso il televoto popolare, in questo festival a cui non abbiamo assistito.