Roth, tu sì che sapevi ascoltare

Esattamente due anni fa moriva il grande autore americano. Rimasto nel cuore dei lettori e degli amici che rimpiangono la sua generosità
di Antonio Monda
Ciò che di Philip Roth colpiva immediatamente, quando lo incontravi di persona, era la sua straordinaria capacità di ascoltare: un talento raro e naturale, che rivelava una necessità di ricerca continua. Poneva domande semplici nella forma ma abissali nella sostanza, come «parlami del tuo cattolicesimo», e ti rendevi conto che quella ricerca sincera, costante e a volte dolorosa, era innervata nella sostanza stessa della sua scrittura. Roth provava un interesse autentico nei confronti del suo interlocutore, chiunque egli fosse, ed era questa sincerità a renderlo anche un irresistibile seduttore: a distanza di due anni dalla scomparsa, la prima cosa di cui parlano coloro che lo hanno frequentato, è quanto manchi a tutti la sua capacità unica di ascoltare. Certo, quando era lui a parlare, ti ipnotizzava in un baleno: per il modo in cui arrivava al cuore di ogni argomento da un angolo inaspettato, per il rifiuto di ogni conformismo, per la battuta fulminante, e per quella risata fragorosa e contagiosa, che sembrava riscattare, almeno per un attimo, ogni dolore esistenziale. Ma era la curiosità la caratteristica fondante della sua formidabile intelligenza, che negli ultimi anni declinava nello studio della storia, e nell’interesse, sorprendente per un ateo come lui, per il sentimento religioso.
Non voglio suggerire che fosse alla ricerca di una fede, né che volesse convertirsi, ma sentiva la necessità di affrontare, almeno culturalmente, una dimensione che aveva rigettato sin da giovane, e forse non approfondita a sufficienza. Per lo stesso motivo si interrogava parallelamente su quello che avrebbe lasciato dopo la sua morte. Da un punto di vista pratico, oltre gli straordinari romanzi, l’elemento più significativo è la donazione di due milioni di dollari e di tutta la sua collezione dei libri alla biblioteca di Newark, sua città natale. È il luogo dove organizzò le celebrazioni per i suoi ottant’anni: un festeggiamento scarno, come era nel suo stile, dove alcuni dei suoi amici scrittori lo omaggiarono leggendo brani dei suoi romanzi. C’erano Don DeLillo e Paul Auster, con i quali amava parlare solo di baseball, c’era Edna O’Brien, venuta dall’Irlanda, c’era Norman Manea, al quale dedicò L’animale morente , e c’erano Judith Thurman e Benjamin Taylor, raffinatissimi intellettuali, che per lui rappresentavano la famiglia. Ma forse nulla lo emozionava come la presenza dei giovani scrittori che considerava eredi: Nicole Krauss, Michael Chabon e Nathan Englander. Parlarono tutti con emozione, devozione e una punta di umorismo, perché sapevano di avere di fronte un maestro d’ironia, e avemmo tutti il sentore di quanto fosse orgoglioso di sentirsi celebrato a casa, e vedere, nello stesso tempo, quella che considerava la propria discendenza.
È lo stesso periodo in cui cominciò a chiedere scherzosamente di essere chiamato “Mr Roth”, e a rispondere a un invito a pranzo «sì quel giorno credo di essere ancora vivo». Aveva definito la vecchiaia “un massacro” e, per dirla con Umberto Saba, era il pensiero della morte ad aiutarlo a vivere. Lo faceva sempre con ironia, godendo il privilegio di non avere nulla da dimostrare: i giudizi sferzanti raggiungevano anche autori intoccabili quali Nabokov del quale riteneva che «a parte Lolita e Il dono ha scritto libri illeggibili». Eppure aveva sofferto per il Nobel vergognosamente negato, come per l’accusa di misoginia di una giurata del Booker Prize che si dimise quando fu lui a vincere. Bastava incontrarlo una sola volta per capire immediatamente che la misoginia era un mito alimentato dalla superficialità: era misogino nella stessa misura in cui era misantropo, e l’altra accusa grottesca, di antisemitismo, rappresentava una declinazione travolgente del self-deprecating Jew . I giudizi sulle due mogli rimasero devastanti sino alla fine, ma il rapporto col sesso, cercato e praticato in maniera ossessiva, nasceva da un’angoscia, oserei dire una patologia, che ha affrontato con onestà nel Teatro di Sabbath , il romanzo disperato con protagonista un tragico alter ego.
Negli ultimi tempi, agli intervistatori che gli chiedevano cosa ci fosse di lui in un suo personaggio diceva «tutto, ma alla lettera, nei minimi dettagli»: era un modo di distanziarsi scherzosamente da una verità che l’aveva visto immortalarsi in maniera così cupa. A David Remnick confidò che dopo un personaggio tetro come Mickey Sabbath sentiva la necessità di raccontarne uno positivo: è così che nacque lo Svedese di Pastorale americana . È illuminante ricordare tuttavia che anche lui finisce sconfitto, con una caduta ancora più straziante. In questi ultimi tempi sì è parlato molto dell’intuizione profetica che avrebbe avuto dipingendo, nel Complotto contro l’America , il Paese nelle mani di un pericoloso reazionario. Era un liberal disincantato, Mr Roth, e riteneva che Trump rappresentasse la negazione di ciò che è l’America, ma attribuire una valenza politica alla sua scrittura significa sminuirne il valore. Quando rifletteva su quello che avrebbe lasciato, lamentava di non aver scritto abbastanza su scrittori che, come Primo Levi, lo avevano arricchito: sentiva la mancanza di amici quali E.L. Doctorow e William Styron, e aveva una profonda ammirazione per Saul Bellow, che per molti versi considerava un maestro. Rifiutava tuttavia ogni sentimentalismo, e manteneva, almeno in superficie, l’immagine di uomo ruvido e solitario: bastava frequentarlo un po’ per capire che entrambe le caratteristiche rappresentavano una scelta rispetto ai tradimenti dell’esistenza. Erano l’altra faccia dell’ironia profonda che continuava ad essere il rovescio del dolore: ha sofferto a lungo di depressione e negli anni Ottanta arrivò sull’orlo del suicidio.
Lo studio della storia, che ha affrontato con passione negli ultimi anni, non si riduceva mai a cronaca, ma rappresentava un’altra possibilità di trovare una chiave di lettura per tentare di decifrare il mistero doloroso dell’esistenza. Era la curiosità intellettuale a tenerlo in vita, e sino alla fine ha dimostrato una libertà che negava ogni possibile snobismo: quando scoprì che il conterraneo Bruce Springsteen era un suo fan si appassionò alla sua autobiografia Born To Run . Negli ultimi anni ha dato ripetutamente prova di grande generosità: ho visto di persona come abbia aiutato una compagna affetta da una grave malattia dopo che il loro legame era finito, e come si sia fatto carico delle spese universitarie dell’ultima assistente. Entrambe lo ricordano con commozione e gratitudine, e sanno che non conosceranno mai più nessuno capace di ascoltarle come lui, Mr Roth.
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