La ricerca estetica di Franco Fontana

 

09/03/2020

di

Giuseppe Cicozzetti

Fontana è un demiurgo. Non documenta, interpreta, egli vede per noi e ci consegna i paesaggi di un mondo ideale, logico e assente di contraddizioni

Tutto obbedisce al colore, o alla coscienza di chi ha inventato una forma. Lui, chi l’ha inventata, è Franco Fontana e il suo linguaggio espressivo è riconoscibile nella cultura visiva come un marchio a fuoco, indelebile, coerente. Tutto obbedisce al colore, e a una geometria che si fa sintesi nel caos dirompente degli elementi, come se attraverso il chroma si intendesse giungere al limite d’una essenza impalpabile e vera. La vocazione geometrica di forme catturate alla luce, l’organizzazione spaziale unita a una severa disciplina della composizione visiva, che elimina per eleggere, di converso, quanto ritenuto essenziale, rende la velatura astrattistica che attraversa ogni fotografia, capace di trasportarci in un realismo possibile dove tutto si fa carnale.

La fotografia è un atto di conoscenza e, come è stato detto, è possedere quel che circola nella nostra coscienza. Il mondo, l’esterno altro non è che un medium che definisce ciò che siamo. E in questo paradigma Fontana, scivolando alla radice di questa asserzione, fotografa il mondo che ha dentro di sé come un atto liberatorio della creazione fotografica che, nel suo aspetto più emancipato, rinuncia a ogni riproduzione della realtà: chi significa in fotografia non è la fotografia stessa, è il fotografo. Fontana è un demiurgo. Non documenta, interpreta, egli vede per noi e ci consegna i paesaggi di un mondo ideale, logico, assente di contraddizioni. Il colore è protagonista assoluto in una rivoluzione stilistica e contenutistica che ha sconvolto fin dalla sua comparsa il dogma imperante della fotografia in bianco e nero.

«Vedo a colori e quindi fotografo a colori» ha detto nel disarmante e silenzioso clamore dei grandi, e la polemica con i puristi, con i dioscuri a guardia della lezione francese – Fontana guarda oltreoceano, ai ribelli americani del colore – non si è ancora arrestata. Tanti fotografi gli devono molto, quasi tutto. Gli devono in primis la loro vocazione e l’iscrizione all’albo dei “fontanini”, gli epigoni zoppicanti di un linguaggio così perfetto da essere inviolabile, leggibile e oscuro allo stesso tempo, accessibile e inviolabile, al punto che vi si accosta non può che produrre, al loro meglio, che “copie di copie” balbettanti e insicure, che lasciano nell’osservatore l’amaro retrogusto d’affacciarsi nel crinale dell’inutilità.

I colori di Fontana sono vibranti, corposi e saturi di rimandi a suggestioni che aggiungono al paesaggio una sensualità antropomorfa. Le colline, i clivi come le alture sembrano respirino: che si muovano indicandoci l’esistenza di uno spazio arcadico, affascinante e raggiungibile solo dalla nostalgia per la perfezione e in cui deflagra il lirismo poetico. Di lui un famoso collega ha detto che è un “pittoricista, non pittorialista, che è ben altra cosa”. Il razionalismo nelle fotografie di Franco Fontana dialoga con la poesia, operando una sintesi minimale che supera l’incastro su cui è chiusa un’arte fotografica che tende a rappresentare la realtà (la stessa tensione concettuale che attraversa il lavoro del bravissimo Alberto Selvestrel, che di Fontana e Luigi Ghirri ha assorbito la lezione e partorito un linguaggio autonomo).

Fontana lavora, come già espresso, “sull’estrazione contenutistica dello spazio”; e infatti le sue inquadrature, siano esse puntate su un paesaggio o nella spazialità costruita, sono così strette da liberare il contesto nel quale i soggetti sono innestati perché perdano definitivamente ogni riferimento con il reale. La realtà dunque non è un’invenzione, ma il suo riassunto, cioè quel che sedimenta negli occhi e nella mente di un fotografo: è la sua estrazione. Ma l’astrattismo è appena accennato e ha una nota funzionale: ciò che vediamo è esattamente quello che è: una terra coltivata, “vestita” dal lavoro dell’uomo, così come una nuvola sospesa nell’orizzonte nel lontano ottico sono sì elementi riconoscibili ma irrobustiti fa una forte connotazione soggettivistica. Noi li vediamo, ne intercettiamo la forma, risuonano in noi come parole appena pronunciate, ci stordiscono come un idioma sconosciuto o ci seducono come occhi che visti una volta non si dimenticano più.

Ecco che ogni cosa, anche il minimo dettaglio compositivo, abbandona l’esperienza epidermica della percezione per invitarci a una discesa nella conoscenza. Tutto nell’opera di Franco Fontana è tradotto seguendo una grammatica nuova, una nuova sintassi visiva che nel tempo, come abbiamo visto, si è imposta a modello, con colori che pare abbiano un peso specifico nell’ordine del creato. E ci obbligano ad ascoltarli, tanto pare che urlino, mentre si allineano secondo una interpretazione dell’essenziale. Tutto, abbiamo detto, obbedisce al colore. Ed è magnifico sottostare al suo comando.

Chi è | Giuseppe Cicozzetti

Geografo. Dopo una lunga esperienza editoriale si occupa di filosofia della fotografia. Su Scriptphotography scrive di cultura e divulgazione fotografica, prestando una particolare attenzione alle nuove tendenze della fotografia e ai loro interpreti. Vive in Sicilia.