Roma umbertina: contro la vulgata immobilista

E’ curioso constatare come, ancora oggi, in un’epoca in cui si è ormai giunti a rivalutare anche le più pompieristiche manifestazioni del gusto, possano esistere segmenti della cultura figurativa ancora scarsamente esplorati perché tacciati di un generico e non motivato «accademismo». Il secondo Ottocento romano, in questo senso, appare un territorio misconosciuto dove – nonostante alcune pionieristiche eccezioni – si sono andati a depositare studi parziali, metodologicamente scorretti e poco approfonditi sul piano della ricerca documentaria. La scarsa conoscenza non solo delle vicende artistico-architettoniche ma anche storiche dell’Urbe dopo la Breccia di Porta Pia ha fatto sì che si andasse a perpetuare il luogo comune di una capitale immobile, attardata e in totale decadenza rispetto ai fasti vissuti durante la reggenza dei papi. In antitesi a tale semplicistica ricostruzione si pone il libro di Paolo Coen Il recupero del Rinascimento Arte, politica e mercato nei primi decenni di Roma capitale (1870-1911) (Silvana Editoriale, pp. 591, euro 30,00) che, con scrupolo filologico e un monumentale utilizzo di fonti archivistiche di prima mano, si sofferma su una stagione di trapasso, per certi versi traumatica ma comunque ricca di fermenti e di aspirazioni destinate in parte ad avere un esito positivo, in parte ad essere frustrate a causa del radicato immobilismo delle istituzioni.
L’Urbe, a seguito del 20 settembre 1870, fu costretta a ripensare il suo ruolo confrontandosi dialetticamente con i modelli delle metropoli europee e, al contempo, con il suo passato di capitale universale delle arti, specie con l’età aurea della Rinascenza. Com’è noto la Città Eterna, tra Quattro e Cinquecento, deteneva in ambito artistico un vero primato che, una volta completato il processo di unificazione, era necessario rivendicare in vista di una rigenerazione degli organi di rappresentanza locali e nazionali. Coen giustamente evidenzia quanto la Roma post-unitaria, nei suoi delicati equilibri politici, fosse permeata dal mito di un Rinascimento trasfigurato anche sulla scia dei languori decadenti fin de siècle. Una sorta di ossessione per i secoli in cui furono attivi Raffaello e Michelangelo era condivisa da molti esponenti dell’intellighenzia capitolina (letterati, collezionisti, nobili illuminati), dalla folta colonia di stranieri – specie tedeschi e angloamericani – stanziati in città e, non in ultimo, da membri del governo che si spesero a fare un uso strumentale del Rinascimento, concepito come depositario di valori identitari utili a connotare il profilo della nuova Italia unita.
La reviviscenza estetico-ideologica delle forme rinascimentali fu alla base dell’edificazione di monumenti celebrativi come il Vittoriano (1878-1911) che, ben prima di essere definito da Papini «pisciatoio di lusso» e dunque dall’essere assunto a icona del passatismo umbertino, mobilitò l’attenzione di diversi leader della sinistra storica (Cairoli, Depretis), convinti sostenitori dell’esigenza di segnalare attraverso una fabbrica magniloquente la solidità di una nazione giovane ma sempre più tesa a imporsi tra le potenze d’Europa. Uno dei pregi del volume sta nella contestualizzazione dei fatti artistici entro il più ampio alveo della Storia; non è infatti possibile comprendere le arti figurative della Roma post-unitaria, e con esse gli orientamenti del mercato e del collezionismo, senza aver presente il tessuto economico-sociale della città e, ancor di più, senza tenere a mente i coevi accadimenti politici. In questa prospettiva si riescono a cogliere bene le ragioni che nel 1882 – in coincidenza con l’alleanza antifrancese dell’Italia a fianco della Triplice Alleanza – portarono al ribaltamento dei risultati del primo concorso per l’Altare della Patria, che aveva visto trionfare il parigino Henri-Paul Nénot – pensionato dell’Accademia di Francia a Roma – con una proposta in pieno stile beaux-arts da realizzare nell’area della stazione Termini. Alla luce dei contemporanei rivolgimenti diplomatici era impossibile, oltre che imbarazzante, pensare di assegnare la paternità di un complesso così intriso di nazionalismo a un forestiero. Il monumento a Vittorio Emanuele II doveva sorgere in un luogo pervaso di riferimenti alla Roma antica (le pendici del Campidoglio) ed essere schiettamente italiano; non a caso, al secondo concorso fu fatto vincere il progetto di Giuseppe Sacconi, il quale si rifece ai grandi esempi dell’architettura classico-rinascimentale (il tempio della Fortuna a Palestrina, il bramantesco cortile del Belvedere in Vaticano) riletti sulla falsariga dei sacrari laici dell’Ottocento (il Walhalla di Ratisbona).
Nel libro viene dato rilevo a figure che, facendo dialogare la propria passione per l’arte italiana del XVI secolo con le istanze della modernità, diedero avvio a programmi molto ambiziosi. Emblematico si rivela l’affondo su Baldassarre Odescalchi – personaggio cruciale tornato agli onori della critica solo di recente – che, in qualità di mecenate, collezionista e uomo politico, si mosse affinché a Roma potessero essere poste le premesse per la produzione di un artigianato di alto livello – paragonabile a quello rinascimentale – ma creato con l’ausilio dell’industria moderna. Consapevole dei benefici che potevano scaturire da una operazione del genere (indotto economico, occupazione per le classi meno agiate), Odescalchi sostenne la fondazione del Museo Artistico Industriale (1874), centro che, con alterne fortune e un endemico disinteresse delle istituzioni, concorse a rilanciare il dibattito sulle arti applicate e a formare generazioni di abili maestranze.
La spinta alla riappropriazione ideale e materiale del Rinascimento ebbe ripercussioni profonde anche su molte attività imprenditoriali inaugurate a Roma sullo scorcio dell’Ottocento. È il caso della galleria dello scaltro Giuseppe Sangiorgi, il quale non solo fu abile nel mettere all’incanto manufatti provenienti da importanti collezioni private ricorrendo a quella che oggi definiremmo una strategia di marketing – una sontuosa sede espositiva all’interno di Palazzo Borghese, cataloghi stampati in diverse lingue con scritti introduttivi di studiosi autorevoli – ma riuscì anche a blandire i suoi esigenti collezionisti – tra gli altri Pierpont Morgan e Isabella Stewart Gardner – commercializzando copie moderne e contraffazioni «in stile» di pezzi antichi. Su una linea analoga si inserisce la Fonderia di Alessandro Nelli che, orientata e dare nuova linfa a prototipi plastici di derivazione classica, dal 1882 divenne celebre per la produzione di sculture di diverso impegno e tipologia – realizzate ex novo o ad imitazione dell’Antico – in gran parte destinate ad essere esportate all’estero.
A dispetto dell’opinione comune di una città isolata e privata dei capitali che, almeno fino all’età del Grand Tour, venivano investiti sul mercato artistico-antiquario, Paolo Coen riesce a dimostrare quanto Roma fosse rimasta un riferimento imprescindibile per colmare la sempre più pressante richiesta internazionale di tele, sculture e arti suntuarie. Tale funzione viene attestata dai numerosi documenti di licenze di esportazione di opere d’arte partite verso tutto il mondo – America e Australia comprese – tra il 1888 e il 1904. Ed è forse da questa controversa concezione di Roma intesa come bacino inesauribile di bellezza che dipende l’irreversibile dispersione moderna, lecita e no, di gran parte del nostro patrimonio artistico.

 

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