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«Il mondo non tornerà più come prima. Il nostro stile di vita è cambiato per sempre e la moda deve adeguarsi: non solo negozi digitali e meno sfilate, ma anche più attenzione al tempo in casa e a quell’artigianato che è la forza italiana da non perdere nella crisi». Domenico Dolce, 61 anni, e Stefano Gabbana, 57, sono tornati al lavoro nell’ufficio di viale Piave a Milano. «In realtà, lui non se ne è mai andato – racconta Stefano -. Finalmente solo in azienda, Domenico ha sistemato l’archivio, mentre io prima della chiusura sono partito per una vacanza ad Antigua, dove sono rimasto piacevolmente bloccato fino a qualche settimana fa».
Come state vivendo questo periodo?
«Vogliamo recuperare il tempo perduto. Anche dopo le riaperture rimarremo a Milano a lavorare. La nostra azienda è nata nel 1984 con 2 milioni di lire e ancora oggi è un divertimento. Non immaginavamo di arrivare a questi livelli».
Avete lanciato il progetto «Fatto in casa», un modo per raccontare l’artigianato in una fase in cui è a rischio?
«Teniamo molto a questo settore, fondamentale per il made in Italy ora in difficoltà. Con il nostro progetto mostriamo sui social a tutto il mondo le lavorazioni della moda, coinvolgendo anche altri tipi di artigianato. La nostra ultima sfilata si chiamava “Fatto a mano” e “Fatto in casa” ne è l’evoluzione, perché nonostante le riaperture passeremo più tempo tra le mura domestiche».
Niente più sfilate evento?
«Virtuali, registrate, con poco pubblico o senza, la verità è che non lo sappiamo. Qui si va avanti giorno per giorno. In Europa riaprono i negozi, ma in Corea richiudono. In Cina abbiamo lanciato un’esperienza d’acquisto virtuale il più possibile simile a quella reale. La parte creativa dell’azienda funziona, mentre quella produttiva riprenderà a pieno regime solo quando non ci saranno i limiti del distanziamento».
Quanto ci rimetterete quest’anno?
«Bisognerebbe domandarlo al nostro ad, ma sicuramente tanto, come purtroppo è già successo in questi mesi».
Armani propone una rivoluzione del sistema moda e porta la prima linea da Parigi a Milano. Che ne dite?
«Siamo d’accordo, anche perché l’alta moda la teniamo a Milano da quando siamo nati. Ci fa piacere sapere che non saremo più soli. Nella moda dovremo cambiare e soprattutto dovrà farlo chi faceva sfilare le pre-collezioni».
Come mai molti marchi italiani sono diventati francesi?
«C’è stata una stanchezza da parte di alcuni nell’andare avanti. Un peccato, perché non tutti sanno mantenere le aziende come gli italiani. Noi siamo i migliori».
Perché non nascono più grandi aziende come voi, Armani o Prada?
«Dopo il coronavirus qualcosa succederà. Ci saranno più spazio e una reazione di orgoglio nazionale. Non è impossibile costruire un’azienda dal nulla, ma occorre una vocazione, bisogna essere devoti al proprio lavoro. Se lo si fa solo per i soldi non è alta moda».
Voi siete l’esempio di come l’amore possa trasformarsi in rapporto di lavoro e amicizia. Come gestite tutto questo?
«Certe cose bisogna viverle. Noi ci siamo sempre rispettati e voluti bene. L’amore nel tempo si è trasformato. Il lato fisico magari si è perso, ma restano l’affetto e la fiducia. Siamo cresciuti insieme e anche nelle interviste come questa ci piace confonderci».
È vero Stefano che lei non sapeva nulla di moda prima di incontrare Domenico?
«Sì, Domenico era capo ufficio stile di Giorgio Correggiari e io lo stagista diciottenne con una formazione da grafico pubblicitario e nessuna conoscenza di tessuti. Ho imparato a disegnare mettendo sotto al foglio gli schizzi di Domenico. Ci siamo conosciuti così e ancora oggi ci realizziamo inseguendoci e confrontandoci».
In questo periodo vi siete visti o temevate il contagio?
«Abitiamo nello stesso palazzo, uno al quinto piano e l’altro al sesto. Ci siamo visti appena finita la quarantena di Stefano che era rientrato da Antigua. Lui diceva: “magari sono asintomatico”. È rimasto solo con tre cani, Totò, Mimmo, Rosa, e cinque gatti: Zambia, Congo, Mali, Togo e Mio».
Avete finanziato una ricerca sul coronavirus guidata da Alberto Mantovani dell’Humanitas. Cosa vi ha spinto?
«Amiamo la ricerca nella moda e anche nella scienza. Sembra astratta, ma nel migliore dei casi diventa utile a tutti. Così ci pare lo studio del professor Mantovani sulle risposte del sistema immunitario al coronavirus. Non abbiamo mai prodotto mascherine e grembiuli e abbiamo scelto questa strada quando l’epidemia era ancora solo in Cina».
Proprio in Cina una vostra pubblicità è stata considerata stereotipata e dopo qualche screzio sui social Stefano ha chiuso i suoi profili. Ne sente la mancanza?
«No, anzi, meglio così. Noi siamo da sempre politicamente scorretti. Rischiamo di sbagliare, ci guardano male, ma siamo indipendenti. Non esprimersi sui social non significa cambiare. E poi là spesso si incontrano invidia e cattiveria».
Quali sono le tendenze al tempo del coronavirus?
«Con tutti i vestiti fermi nei negozi non abbiamo ancora nuove collezioni. Noi andiamo dal nero di Sicilia ai colori stampati, ma siamo duttili e pensiamo a uno stile dedicato alla casa, che durerà a lungo. Aumenterà la tendenza di quelli che cucinano, che curano il terrazzo e che dipingono mascherine e ceramiche».
Ma in casa gli stilisti consentono vestiti comodi?
«Certamente, senza però perdere il sex appeal».

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