“Lei è monarchico, discepolo di Drumont – che m’importa? Lei mi è incomparabilmente più vicino dei miei compagni delle milizie d’Aragona – di quei compagni che, peraltro, amavo”.

Simone Weil scrive a Geroges Bernanos, in occasione della lettura – sofferta perché condivisa, se non proprio nell’esperienza, almeno nella sensibilità con cui osserva esterrefatta la corsa a perdifiato del mondo verso il baratro di un altro conflitto mondiale – de I grandi cimiteri sotto la luna. Libro di denuncia del carnaio spagnolo della guerra civile del ’36, anticipo di ciò che sarà di lì a poco l’Europa, in cui il credente intransigente Bernanos denuncia lo spettacolo “compassionevole” di tutti quei disgraziati (repubblicani, democratici, fascisti o antifascisti, clericali o anticlericali, povera gente, poveri diavoli), pronti a chiedere la propria parte alla mensa grondante sangue del conflitto.

Simone Weil, che già ha avuto modo di apprezzare le altre opere di quel dostoevskijano di Bernanos, riconosce in lui un compagno di sguardo. Entrambi osservano la grande Storia, il rincorrersi tragico di eventi, oltre la coltre, che si rivela poi superficiale, delle dinamiche politiche, cioé sanno con assoluta certezza che il dramma della guerra e delle forze che la dichiarano, si svolge lungo quella direttrice metafisica che interpella ogni coscienza nella scelta di campo tra il Bene e il male, ben al di là di tutte le ragioni con cui ci si convince di andare a combattere.

Due portatori sani, a prescindere dal dettaglio dell’età, utile solo ai burocrati dell’anagrafe e dell’anima, di quello “spirito della giovinezza” che resiste a un mondo moderno che con le sue macchine e le sue dittature, persegue ostinatamente una ideologia dell’annientamento. Senza questo spirito, Bernanos e Weil conoscono bene il destino che ci attende nella Storia, quello peggiore, in cui “uomini liberi continuano a servire liberamente l’idea totalitaria”.

Simone scrive al cattolico Bernanos; lei non lo è, almeno ufficialmente, aggiungiamo noi: nessun accenno, non è certo l’occasione opportuna per una confessione, a quello che è stato definito “fermarsi sulla soglia”, di cui tanto ha scritto e tanto ha confidato al suo padre spirituale, Perrin. Simone, adesso ha l’urgenza di comunicare ciò che è essenziale di fronte ad un conflitto, e cioè l’atteggiamento di fronte all’omicidio.

“Non ho mai visto, né tra gli spagnoli, e neppure tra i francesi venuti per battersi o per diporto – questi ultimi, il più delle volte, intellettuali spenti e inoffensivi –, non ho mai visto nessuno esprimere, neppure nell’intimità, repulsione, disgusto o solo disapprovazione per il sangue inutilmente versato”.

Aggiunge che qualcosa di infinitamente peggiore della paura, a differenza di quanto sostiene Bernanos, ha avuto un ruolo determinante nel carnaio: l’ebbrezza per l’annientamento dell’altro. Ne ha incontrati, lei, di francesi pacifici, che prima stimava, che mai avrebbero pensato di diventare loro stessi assassini, ma poi erano tornati ebbri di sangue, definitivamente perduti nella fascinazione dell’omicidio, annegati nel suo inquietante piacere. “Per costoro – dice – non potrò mai più avere alcuna stima”.

Il fatto, espresso con una scrittura che Cristina Campo definirebbe pura come un diamante, è questo: quando le autorità spirituali e temporali individuano una sottocategoria di esseri umani, non degni di essere considerati di valore, uccidere diventa la cosa più naturale.

“Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo, né biasimo, si uccide; o almeno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono”.

E ci avvisa che soltanto una forza d’animo eccezionale riesce a resistere a quella fascinazione. Perciò, viene da pensare, non è affatto il caso di dare per scontate certe prese di posizione a priori, come quei francesi partiti pacifisti e tornati assassini con grande soddisfazione. Quelli che Bernanos definisce nel suo libro umanisti traditori, che minacciano l’anima, artefici della futura barbarie.

Non sarà mai possibile la riconciliazione dei vivi, senza quella dei morti. Allora bisogna espiare per loro, affinché riescano a riscattarci. Questa la via tracciata da Bernanos, forse per trarci fuori dall’incubo di ritrovarci compiaciuti della morte di un altro, anche quando non siamo noi in prima persona ad infierire il colpo decisivo.