Quell’infinito attimo mentre tutto finisce

di Marco Missiroli

La premessa è onesta: non avevo intenzione di scrivere di nessun libro. Poi mi sono imbattuto nel romanzo di Hanne Ørstavik, Ti amo, e non ho potuto fare a meno che scrivere di questo libro. È interessante il cambio di intenzioni degli esseri umani. A cosa devo la mia corruzione di volontà? Credo a quello che Julio Cortázar chiamava il mondo altro, ovvero l’imponderabile capacità di un’opera di chiamarci a sé.

Qualche sera fa ho trovato il volume di Ørstavik in cucina, sotto un accumulo di scartoffie, poco prima di cena. Faceva parte di quei libri che mi era stato mandato dagli editori per una buona ragione, avendo io conosciuto l’autrice per il suo romanzo precedente e in una presentazione. È stata la copertina a farsi largo tra il casino del mio tavolo: di un rosa acceso, anomalo. L’ho preso in mano e l’ho portato in salotto. Avevo già qualcosa da leggere, avevo del lavoro da sbrigare, invece l’ho cominciato, incuriosito dal titolo rischiosissimo e dal fatto che ricordavo lo stile dell’autrice, così nitido, secco, crudele. Da qualche parte avevo sentito che raccontava la tragedia vissuta con il marito, editore italiano, morto di cancro dopo quattro anni che si erano innamorati e sposati.

La faccio breve: mi è stato impossibile mollarlo, riconoscendo di avere tra le mani un’opera sacrosanta. Per la prosa implacabile, certo; per il senso di confessione che trasmette senza sconfinare nel piagnisteo degli addii; per il modo nordeuropeo di raccontarci, ammettendo le solitudini come basi delle relazioni. Bastava? Bastavano davvero questi pertugi per mandare all’aria i miei programmi? A pensarci bene no. A pensarci bene il potere imponderabile di quelle pagine era più banale e recitava più o meno così: tu sei quasi morto, amore mio.

Il quasi. L’attimo che precede la morte ma che non è ancora la morte. La mancanza mentre sta avvenendo la mancanza. Non il dopo: il mentre. L’opera di Hanne Ørstavik va oltre l’elaborazione di una tragedia irradiandola dello stupore di chi ne è testimone adesso. Terribile, meraviglioso: abbiamo un libro scritto da un’autrice che ha il fegato di non aspettare il deposito dell’esistenza. Perché è di questo che si parla nel romanzo di Ørstavik: il fiuto del lutto e il coraggio di annusarlo in diretta. Mi vengono in mente i reporter d’assalto che possiedono il gesto di scattare una fotografia nell’acme del pericolo. È una questione di tempo. La vita e la morte, in effetti, sono sempre una questione di tempo.

Ti amo è un libro sulla forza quieta mentre veniamo scorticati. Ti amo è un libro su come si trasforma un legame quando il corpo del nostro legame sta sparendo dalla terra. Non è un diario, è un romanzo, scritto da un’autrice che dichiara subito la questione cruciale: ciò che racconto è verità perché a me interessa la verità. Un lettore potrebbe volersi proteggere da questo fardello, ma è ancora una volta la letteratura a girar le cose: leggendolo ci ritorna una tenerezza sottostante, luminosa, mai nera, come certe piante che si aggrappano alla terra inospitale e ne fanno foresta. Come sia possibile non lo so, però a un certo punto della lettura mi è stato sufficiente recitarne un paragrafo a voce alta per avere indietro un suono che deve alla rinascita, non al commiato.

Ed è strano ascoltare il sussurrìo della lacerazione, come in una confessione data a sé stessi in nome del pudore. È un processo chimico, di prosa soppesata, che potrebbe dipendere dalla cultura nordica dell’autrice, nata in terre estreme norvegesi, tradotta ovunque per i suoi romanzi che raccontano di come funzionano le solitudini quando ci lasciano una tregua. Ciascuna di queste storie è sotto spirito, dove per spirito si intende una certa voglia di amare e spesso l’impossibilità di riuscirci. Ti amo è il romanzo in cui si riesce a farlo, nonostante l’eredità della fine che amputa: «Sono stata così giù. Ho sentito che non sarebbe stato mai più possibile essere di nuovo felice, felice in un modo leggero, un tipo di felicità che potevo provare prima, una felicità dove il pensiero della morte non esiste».

E invece qualcosa accade. E si fa largo a mano a mano che il libro procede e che l’epilogo dell’amato si avvicina. Sta nei fatti e ha la liturgia dei dettagli a cui ci appigliamo quando siamo nel fondo del fondo. La fila in farmacia, certi balconi che riescono ad ospitare un tavolo e due sedie, un letto comodo, un invito a casa di persone che a malapena conosciamo e si rivelano consolatorie. Una Milano inospitale che diventa comunque famiglia, con il riverbero della Darsena e i gradi di separazione che si ricreano nell’immediatezza. E quella scena, in un bar celebre di Milano di viale Col di Lana, dove il marito che sta già male ordina una cioccolata in tazza. Gli va, perché lì la fanno buona e la consuma al banco e lei è appena dietro a vederlo con la giacca a vento e il cappuccio che gli pende. È la giacca a vento comprata in un viaggio in Cina, quando lui stava bene e loro dovevano ancora conoscersi ma nell’aria c’era già il loro incontro. Il presente e il passato che sanno di futuro. Il romanzo di Hanne Ørstavik è questo amalgama di epoche viventi che si cercano, si trovano, si perdono.

Si perdono davvero? A un certo punto crediamo di sì, perché arriva un viaggio a Guadalajara dove la protagonista è a una fiera internazionale del libro. Lui è a casa e si sta aggravando e loro si telefonano sempre, immaginando cosa avrebbero potuto fare insieme nella stanza di quell’hotel messicano, mangiando sul terrazzino o semplicemente parlandosi a letto. L’ultima cosa che dovrebbe avvenire è che lei si ritrovasse in amore per una persona che non è lui. Ritrovarsi lì, in Messico. E nel caso accadesse, significherebbe davvero essersi perduti?

Dipende se sappiamo pronunciare le due parole: ti amo. Se sappiamo farlo, se ci concediamo il suono della dichiarazione, allora qualcosa del noi si rinsalda nella solitudine. Ti amo: il suono in una stanza vuota, magari dopo che lui è stato portato via, magari rivolto a noi stessi, l’acustica che rivela di poter sopravvivere alla tragedia. Era Simone Weil a dire che esistono preghiere impensabili finché non ci mettiamo a pregare. E non c’entrano Dio, o le ritualità pagane, le autocommiserazioni, i mondi altri, o i libri scritti sotto il segno della vita. C’entra l’incoscienza di salvarci, racchiusa anche qui, in questo romanzo di salvezze.

 

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