Questo è solo per Valentini e Vedovelli, sempre consapevole dell’inutilità.

La privatizzazione dei musei e del patrimonio Di Giovanni Pinna

Il Codice dei beni culturali prosegue nella politica intrapresa dai precedenti governi della Repubblica, che era segnata dalle teorie di economia della cultura che hanno trionfato in Italia per tutti gli anni Novanta e per i primi anni del Duemila. Queste avevano giustamente identificato nella gestione del patrimonio e delle istituzioni culturali un grande serbatoio di ricchezza per il paese, commettendo però un errore. Nella maggior parte dei casi tali teorie non consideravano il patrimonio come un oggetto unitario, da gestire con una politica generale in grado di organizzare i rapporti fra tutte le componenti, produttive e improduttive, quali turismo, uso sociale, risorse territoriali, ecc., ma lo suddividevano in microunità produttive –i singoli musei o i singoli monumenti, per esempio- ciascuna delle quali veniva valutata isolatamente. Il puntare l’attenzione sui ricavi o sulle perdite delle singole microunità non ha permesso di quantificare la redditività globale del patrimonio culturale italiano e delle sue strutture; ci si è persi nei dettagli e non è stato dato impulso a una politica globale in grado di promuovere la crescita del valore economico del patrimonio. Il considerare le realtà culturali come unità produttive isolate ha spinto perciò verso la privatizzazione e ha giustificato la sua applicazione.

Il Codice dei beni culturali non propone in nessun punto del suo articolato la privatizzazione del patrimonio e delle istituzioni museali, intesa come trasferimento di beni e strutture dalla proprietà pubblica alla proprietà privata, ma è costruito in modo da promuovere il più possibile l’ingresso dei privati nella gestione dei beni culturali e delle istituzioni delegate alla loro conservazione e fruizione pubblica. 1

Esso ipotizza, come d’altro canto avevano fatto alcuni precedenti atti legislativi, la possibilità di concedere a gruppi privati la gestione delle istituzioni

1 Per la verità, riguardo alla possibilità di alienare il patrimonio culturale, mettendo in relazione gli articoli 54, 10 e 12 mi sembra di cogliere nel Codice una certa ambiguità:
L’art. 54.1 dichiara inalienabili i beni culturali demaniali, fra cui (comma c) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche.

L’art. 10 comma 1 stabilisce che sono beni culturali le cose mobili e immobili appartenenti allo Stato alle regioni e agli altri enti territoriali ecc. che presentano interesse artistico, storico ecc.
Lo stesso art.10 al comma 2 elenca i beni culturali fra cui le raccolte dei musei, pinacoteche, gallerie, ecc.

L’art. 12 comma 1 stabilisce che le cose mobili e immobili indicate all’articolo 10 comma 1 (vale a dire le cose mobili e immobili appartenenti allo Stato alle regioni e agli altri enti territoriali ecc. che presentano interesse artistico, storico ecc.) la cui esecuzione risale a più di 50 anni, devono essere sottoposte alla verifica come dal comma 2 dello stesso articolo. Questo sancisce che il ministero verifica l’interesse storico, artistico ecc. delle cose di cui al comma 1 (e cioè di nuovo le cose mobili e immobili appartenenti allo Stato alle regioni e agli altri enti territoriali ecc. la cui esecuzione risalga ad oltre 50 anni) sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero.

In sostanza si evince che, mentre da un lato (art.54.1c) le raccolte dei musei sono considerate beni culturali inalienabili, dall’altro, essendo cose mobili di proprietà dello Stato, regioni ecc. (art. 12.1), possono essere sottoposte alla verifica dell’interesse culturale stabilita dall’art.12, sulla base di criteri che la legge non stabilisce (art.12.2), ed essere dichiarate di non interesse culturale e, quindi, alienabili. L’inalienabilità o meno dei beni culturali dipende quindi da verifiche ministeriali, effettuate sulla base di criteri che la legge non stabilisce e che sono quindi presumibilmente lasciati alla discrezione del ministero e, quindi, del Governo.

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collegate al patrimonio –musei, monumenti, siti archeologici- e il loro sfruttamento economico. Ciò impedirebbe di parlare di privatizzazione, se le due azioni, privatizzazione come cessione di beni e strutture e privatizzazione della gestione dei servizi relativi al patrimonio, non producessero sulla società gli stessi effetti.

Da alcuni anni, nelle istituzioni pubbliche è in atto la tendenza a concedere ai privati sempre maggior spazio nella gestione dei servizi che tradizionalmente erano considerati di competenza pubblica. Ciò avviene in molti paesi europei, a vari livelli dell’amministrazione pubblica e in settori molto diversi fra loro -trasporti, sanità, energia, comunicazione- il cui comune denominatore è la pubblica utilità, l’essenzialità del ruolo nell’ambito della società e il valore strategico. Proprio in ragione di questi tre fattori, l’amministrazione pubblica, conservando a se stessa la gestione, manteneva tali servizi al di fuori delle regole del mercato e garantiva così il loro livello sociale; ciò che la privatizzazione, assoggettando i servizi pubblici alle regole del mercato, non è più in grado di garantire. In tutti i settori il risultato della privatizzazione è una diminuzione del servizio prestato e un aumento dei costi. La privatizzazione presume infatti investimenti privati che, a loro volta, presumono la realizzazione di utili. A seguito della privatizzazione il servizio pubblico si trasforma perciò in un’impresa che deve produrre utili, e deve sottomettersi quindi alle leggi del mercato. Tuttavia, i margini di crescita di un servizio pubblico sono ristretti in quanto l’utenza del servizio rimane sostanzialmente stabile–si pensi alla sanità come caso limite; la produzione o la crescita degli utili non può dunque avvenire per aumento del numero delle prestazioni effettuate, e le sole via percorribili rimangono la diminuzione degli investimenti (che si risolve in una diminuzione della qualità del servizio prestato) e l’aumento dei costi. Ciò è vero soprattutto nel caso in cui l’impresa privatizzata agisce in regime di monopolio, cosa comune in alcuni settori.

Ciò si verifica anche nel campo dei beni culturali, seppure con modalità ed effetti particolari, poiché in questo caso nella trasmissione dal pubblico al privato sono interessati patrimoni comunitari, intendendo per patrimonio comunitario ogni complesso di beni a forte valore simbolico o sociale la cui proprietà appartiene all’insieme di una comunità e non a una sola parte di essa.

Trasferendo ai privati la gestione dei beni e delle istituzioni culturali, l’amministrazione pubblica non trasferisce solo la responsabilità del funzionamento di un servizio pubblico, quantificabile su modelli aziendali, ma delega funzioni che implicano un forte impatto sociale. Bisogna infatti ricordare che il patrimonio culturale è costituito da due componenti: da un lato gli oggetti fisici, con il loro valore estetico e economico, dall’altro i significati simbolici di cui questi oggetti sono stati caricati nel corso della storia, il cui insieme costituisce la memoria, la coscienza di se, l’identità della società. Ora, questi significati simbolici vengono creati dalla società stessa attraverso l’azione che si svolge all’interno delle istituzioni culturali (raccolta, conservazione, studio scientifico, interpretazione, comunicazione, per quanto riguarda i musei). Cedere ai privati la gestione di queste istituzioni equivale dunque a delegare a gruppi privati la formazione della memoria e dell’identità comunitarie2. Per quanto

2 Si consideri a questo riguardo che, come già segnalato, il decreto del 245 n.139 del 1997 inseriva fra i servizi aggiuntivi dei musei appaltabili anche “l’assistenza didattica”. Ciò ha rappresentato una vera e propria abidicazione dello Stato alle sue funzioni educative. Lo Stato delegava infatti ai privati, assieme alla gestione della libreria, del ristorante e del guardaroba, anche il potere di comunicare alla comunità i significati del patrimonio, concedendo –attraverso gare d’appalto poco selettive in termini di qualità – l’attività educativa. Attraverso un meccanismo perverso e sottilmente burocratico, che prevedeva l’obbligo per un certo soggetto di appaltare la totalità dei servizi aggiuntivi di un dato museo, e considerando l’attività educativa un servizio aggiuntivo, fu mandato allo sbaraglio un settore

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riguarda gli effetti che ha sulla società, il risultato di questo tipo di cessione è perciò identico a quello che si otterrebbe con la cessione degli oggetti fisici del patrimonio.

Poiché è indubbio che la creazione del patrimonio (e la modificazione nel tempo dei suoi significati) ha influenza sullo sviluppo culturale di una comunità, la privatizzazione delle istituzioni culturali equivale teoricamente a privatizzare la cultura della comunità stessa. Il che porta il problema della privatizzazione dei musei e del patrimonio su un piano etico.

L’etica della privatizzazione

L’idea di privatizzare la gestione delle istituzioni culturali è derivata in Italia dalla fortuna che hanno avuto negli ultimi vent’anni alcune teorie di economia della cultura. Per quanto riguarda i musei queste ritenevano possibile una gestione “imprenditoriale”, con offerta di una vasta gamma di servizi, in grado di sviluppare un ritorno economico, a sua volta in grado di garantire l’autosufficienza economica. Esse non tenevano tuttavia in conto il fatto che solo una parte dell’attività dei musei (quella collegata alla gestione del pubblico) produce redditi immediatamente quantificabili, mentre tutta la produzione culturale fa perno su azioni di elaborazione culturale e di ricerca scientifica che sono attività non redditizie a breve termine, e quindi difficilmente quantificabili.

In linea teorica la redditività diretta dei musei, che è alla base della privatizzazione della loro gestione, potrebbe essere perseguita solo percorrendo due vie, ambedue dannose alla società, in quanto ambedue incidono sulla sua identità.

L’annullamento culturale

La prima di queste vie conduce alla trasformazione dei musei da strutture di produzione e di acquisizione culturale3, in luoghi di puro svago. Essa passa attraverso la creazione di “musei-impresa” la cui finalità è la redditività, mascherata sotto un debole mantello culturale. Il tentativo di trasformare i musei in “imprese” economicamente redditizie conduce inevitabilmente a una radicale trasformazione della loro natura e a una negazione del ruolo sociale e culturale che tradizionalmente le caratterizza4. Il museo-impresa deve infatti essere in grado di vendere un prodotto

delicato come quello della didattica museale, il cui fine è quello di comunicare ai giovani i significati e i valori del patrimonio. Salvo poi correre ai ripari costituendo presso il Ministero dei beni culturali, prima una Commissione (1995), e successivamente (1998) un Centro per i servizi educativi del museo e territorio, con lo scopo di procedere verso un’organizzazione statale della didattica museale.

Il nuovo Codice dei beni culturali ha proseguito per questa strada, inserendo fra i servizi aggiuntivi i servizi “…di intrattenimento per l’infanzia, i servizi di informazione, di guida e assistenza didattica…” (art.117.2e), questi possono essere “…gestiti in forma integrata con i servizi di pulizia, di vigilanza, di biglietteria” (Art.117.3), “nelle forme previste dall’art. 115”, e cioè anche per “affidamento diretto a istituzioni, fondazioni, associazioni, consorzi, società di capitali…” Art.115.3a).

3 La crescita culturale di un individuo non avviene per semplice acquisizione di dati, ma attraverso una elaborazione soggettiva delle informazioni ricevute in rapporto alle propria cultura. Per questa ragione il museo contribuisce alla crescita culturale dei visitatori (e quindi della comunità) quando crea un rapporto dialettico fra la visione culturale che egli propone, e la cultura intrinseca del visitatore. Ciò è attuabile solo se il museo crea una propria visione culturale, il che può essere fatto solo attraverso l’elaborazione scientifica delle proprie collezioni.

4 A titolo di pura informazione ecco alcuni danni cui i musei possono andare incontro con la privatizzazione, in qualsiasi forma sia effettuata:

  • sostituzione della gestione intellettuale con una gestione manageriale,
  • emarginazione del personale intellettuale dalle scelte strategiche del museo,
  • immissione nel museo di un sovrappiù di figure professionali collegate con la

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comunicazione e diminuzione delle figure legate alla produzione scientifica e culturale,

appetibile da un pubblico sempre più vasto. Ora, se la funzione dei musei consiste nell’essere luogo di creazione del patrimonio culturale e dei suoi significati sociali, e mezzo di diffusione di tali significati, la cultura deve essere il prodotto primario del “museo-impresa”. Tuttavia la cultura è un bene non acquistabile, e non è quindi un prodotto vendibile. Il “museo-impresa” non può quindi vendere il suo prodotto primario; per essere economicamente produttivo deve perciò vendere prodotti secondari: la sua utilizzazione sotto forma di biglietti di accesso (che non corrisponde alla vendita di cultura, esattamente come chi vende sapone non vende pulizia), ed altri prodotti che nulla hanno a che fare con le finalità di creazione e di diffusione culturale del museo, gadgets, guide a stampa, cartoline, frequentazione delle cafeterie, ecc. e cioè quelli che la legge italiana definisce servizi aggiuntivi. La vendita dell’utilizzazione del museo effettuata nell’ottica dell’economia di mercato innesca una spirale destinata a portare alla diminuzione della qualità dell’offerta culturale del museo. Il museo è forzato a vendere il diritto di utilizzazione ad un numero di persone tale da alimentare la redditività della struttura, deve cioè mantenere una quota di mercato, facendo fronte alla concorrenza esercitata dal numero crescente di musei e da altri modi di utilizzo del tempo libero. Il mantenimento della quota di mercato può essere perseguito in vari modi, pubblicità, acquisizione di pezzi spettacolari, unici5, ma anche attraverso l’adeguamento dei contenuti del museo ai gusti e al livello culturale del pubblico. I “musei-impresa” si riducono quindi ad agire come le televisioni commerciali: offrono al pubblico ciò che il pubblico vuole, e così facendo non contribuiscono alla crescita culturale della comunità.6

  • distruzione dell’articolazione scientifica e tecnica dei musei,
  • diminuzione drastica o annullamento della produzione scientifica e culturale,
  • gestione privata incontrollata dell’attività didattica e educativa,
  • mancanza della “cultura del museo” e impoverimento dei contenuti comunicabili
  • affidamento delle realizzazioni espositive a organizzazioni esterne al museo e quindidiminuzione della capacità produttiva del museo nel campo della comunicazione,
  • supersviluppo del merchandising museale e dei servizi di ristorazione,
  • ricerca ossessiva dell’evento shock e del pezzo spettacolare,
  • disneyzzazione delle esposizioni museali,
  • moltiplicazione delle mostre temporanee,
  • nascita di musei commerciali,
  • omogeneizzazione dei musei,
  • minimizzazione del ruolo sociale del museo.5 La ricerca della redditività produce tutta una serie di effetti collaterali, a volte di grande impatto. Non si può negare per esempio che un impulso al mercato clandestino delle opere d’arte possa venire dalla ricerca di pezzi unici o spettacolari da parte dei musei.
    6 In Italia alcuni musei sono stati trasformati in fondazioni di partecipazione, costruite secondo una teoria economica che considera possibile l’istituzione di fondazioni senza fondi, il cui patrimonio è puramente virtuale e consiste solo nella speranza di generosi interventi privati (E.Bellezza e F.Florian, Le Fondazioni del Terzo Millennio. Passigli, Firenze, 1998). I risultati sono stati deludenti, sia sul piano economico, sia su quello culturale. Poiché non vi sono stati i massicci interventi privati che la teoria economica assicurava, tali musei concentrano tutti i loro sforzi non sull’attività culturale, ma verso la ricerca del denaro indispensabile alla sopravvivenza fisica della fondazione. Inoltre essi non sono in grado di svolgere un’attività culturale autonoma, in quanto devono sottostare alle condizioni imposte dai pochi finanziatori (mai disinteressati), sia per ciò che riguarda i contenuti, sia per quanto riguarda le linee generali di sviluppo.Per fare un solo esempio, il rinnovamento delle esposizioni del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, trasformato in fondazione nel 2000, è condizionato dalle imprese che finanziano i settori di loro interesse (la sala dell’arte orafa, la sala del tempo, ecc.). Lo stesso museo ha inoltre sviluppato soprattutto l’attività didattica a livello scolare, in quanto la sola in grado di fornire alti numeri di presenza.

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La manipolazione dei contenuti

La seconda via cui conduce la privatizzazione dei musei è ancora più pericolosa per la società. Mentre infatti percorrendo la prima via si influisce sull’identità della società per sottrazione del ruolo culturale del museo, attraverso la seconda si agisce sull’identità della società con operazioni di manipolazione, che possono modificare, anche profondamente, la natura stessa della società.

Si è detto che la capacità di creare il patrimonio culturale deriva ai musei dall’essere centri di elaborazione scientifica, in cui gli oggetti assumono il loro significato simbolico e entrano così oggetti a far parte dell’eredità culturale. Ora, è indubbio che la creazione del patrimonio è un’operazione del tutto soggettiva: i significati che vengono creati non sono assoluti ma relativi, derivano dalla visione della realtà che il museo si è creato attraverso il concorso dell’insieme delle individualità che agiscono nel museo. Il museo non può quindi comunicare una cultura assoluta, né alcuna verità; esso comunica la propria cultura e la propria verità soggettive. Tuttavia il museo ha un’autorevolezza intrinseca che gli deriva dal fatto di esporre oggetti reali, che sono ritenuti meno manipolabili delle parole riportate dalla stampa periodica o delle immagini televisive. Orbene, paradossalmente, proprio questa autorevolezza, assieme alla soggettività intrinseca, rende i musei potenti strumenti di manipolazione della memoria, della storia, della cultura e, quindi, dell’identità.

Il contenuto del museo ha infatti la possibilità di venire variamente interpretato e anche fortemente manipolato, e non vi è paese al mondo, comprese le nazioni rette dai regimi più democratici, in cui i gruppi dominanti nella società, siano essi politici, sociali, economici, etnici o religiosi, non controllino, o non tentino di controllare i musei e i loro contenuti, con il fine ultimo di creare identità che siano funzionali al potere, e percorsi storici che conducano alla sua legittimazione. I musei divengono perciò luoghi di confronto politico, di scontro ideologico e di tensione sociale, luoghi attraverso cui le frazioni della società che lottano per la supremazia tentano di imporre il loro modello culturale, e di creare identità artefatte attraverso interpretazioni “di parte” della storia. Attraverso i musei, gruppi sociali, economici o politici tentano di affermare la loro legittimità al potere costruendo artificialmente una storia lineare, e dimostrando di essere gli eredi naturali di questa storia, e nello stesso tempo cercano di assumere una forte autorevolezza allungando il più possibile i tempi di questa storia, creandosi in tal modo radici sempre più antiche.

Questa potere di manipolazione del museo, ben compreso dai regimi tirannici, che lo hanno utilizzato per imporre in modo coatto identità posticce ed estranee alla vera cultura delle società soggiogate, deve far pensare quanto si pericoloso per una società affidare la gestione del proprio patrimonio a gruppi privati, i cui interessi differiscono da quelli dell’insieme della società, quando non sono del tutto opposti.

Immoralità della privatizzazione

Nelle società democratiche la politica culturale messa in atto dai governi e dalle amministrazioni pubbliche in generale non può prescindere dal valore rappresentativo e identitario del patrimonio culturale e dei musei, che ne sono assieme i creatori e i custodi. Se si parte dal principio -ovvio, ma non sempre osservato- che in

Nonostante questa incertezza economica e culturale delle fondazioni, la direzione generale dei musei del Comune di Milano persegue l’idea di trasformare l’insieme dei suoi numerosi musei civici in un’unica fondazione. (vedi Alessandra Mottola Molfino in Mottola Molfino A., Morigi Govi C., 2004 – Lavorare nei Musei. Umberto Allemandi, Torino, pp.77-78)

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una società democratica è la società che governa se stessa, eleggendo di volta in volta i propri delegati, risulta evidente che in queste società i delegati non hanno il diritto di rovesciare completamente l’assetto storico, culturale o economico della società che li ha eletti a rappresentarla. Quando ciò avviene, a seguito di lotte di classe, di lotte tribali o per altre ragioni, non si ha mai il passaggio da un regime democratico ad un altro, ma si instaura sempre il potere di una classe su un’altra o di un gruppo etnico su di un altro, si realizza cioè un regime autoritario.

Come in una società democratica il potere, e cioè i delegati di una frazione della società, non hanno mai il diritto di mettere in atto politiche di sovvertimento della struttura fondamentale della società, così esso non può mettere in atto politiche che tendano al cambiamento della cultura fondamentale della società: il potere provvisorio non può quindi decretare la distruzione o il mutamento radicale del patrimonio culturale e dei musei, in quanto essi rappresentano -si è più volte ripetuto- la radici e l’essenza stessa della società. E’ in base a questo principio che nel 1794 la La Convenzione stabilì il diritto primario, non delegabile, della società sul patrimonio culturale, indirizzando alle amministrazioni regionali un’ordinanza in cui si leggeva “Voi siete soltanto i depositari di beni di cui la grande famiglia del popolo potrà chiedervi conto”

Come fu stabilito dalla Francia rivoluzionaria il fondamento di ogni politica culturale che si sviluppa in una società democratica si deve basare sul principio che la società non può delegare ai rappresentanti eletti il potere di sovvertire la natura del patrimonio e delle istituzioni culturali, abdicando quindi alla gestione diretta della propria memoria, della propria identità e del proprio status culturale. Ora, attraverso la privatizzazione il potere politico sottrae alla società il diritto di gestire direttamente il proprio patrimonio culturale, e ne affida la gestione a gruppi non rappresentativi, i cui interessi non coincidono con quelli della società: ciò costituisce un sovvertimento radicale della natura della società ed è un’azione che esce dagli schemi della democrazia

Un gruppo privato che accetta di gestire una frazione del patrimonio culturale, o un’istituzione culturale, è infatti sempre mosso da un interesse personale, anche quando questo è mascherato da disinteressato mecenatismo; esso cerca vantaggi economici, benefici che possono derivare dallo sfruttamento dell’immagine, dalla possibilità di manipolare a proprio favore la realtà, o dalla capacità di comunicare messaggi funzionali al rafforzamento o al mantenimento del potere. Il gruppo privato, in quanto mosso da interessi ristretti e diretti, non ha nessun vantaggio in una gestione del patrimonio culturale che, enfatizzando il significato rappresentativo, conduca a una crescita della cultura e della coesione sociale della società. Il delegare dunque la gestione del patrimonio a un gruppo che si muove sulla base di propri interessi, spesso contrastanti con gli interessi generali della società, equivale, in campo politico generale, a delegare il potere decisionale a oligarchie economiche, non solo non rappresentative della società, ma soprattutto prive di ogni finalità sociale generale. Il risultato è il privare la società di un suo diritto fondamentale, che è quello di gestire coralmente la propria storia e le proprie tradizioni culturali.

“Il museo -ha scritto Marc Fumaroli- è prima di tutto e soprattutto un focolare della conoscenza, nel suo duplice impulso di memoria e di invenzione, e uno strumento di istruzione. Conoscenza, memoria, invenzione, educazione: sono concetti delicati e disinteressati che solo il potere pubblico può assumersi perché sono di interesse pubblico in una società civile, erede dei Lumi. Io credo che il compito dello studioso, professore o conservatore, sia quello di premere in tal senso con tutte le sue forze. Quando leggiamo, in un grande quotidiano, le proposte di un uomo d’affari

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secondo cui il tasso di frequentazione dei siti e dei musei è prioritario in rapporto a ciò che si definisce “la loro vocazione culturale e scientifica”, è difficile non vedere in ciò un pericolo di barbarie, per dirla correttamente. Senza dubbio, si può presentare “il tasso di frequentazione” come una “pompe à finances” che alimenterà le funzioni propriamente culturali, inventive e educative del museo e dei monumenti pubblici. Nondimeno bisogna sperare che una deontologia ben salda si applichi alla distinzione e alla gerarchia delle categorie”7.

Nonostante sia evidente l’immoralità insita nella privatizzazione della gestione del patrimonio culturale, dal Codice si desume che lo Stato è intenzionato ad abdicare al suo ruolo di rappresentanza della comunità nazionale e ad affidare ai privati la comunicazione ai cittadini dei valori e dei significati del patrimonio culturale. “La Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale” recita infatti il codice (art.6 (3)), intendendo per valorizzazione “ l’esercizio (..) e la disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale…” (art.6 (1)).

Il valore economico del patrimonio

Le ragioni principali addotte per giustificare la privatizzazione dei servizi pubblici sono la ricerca di una maggiore efficienza e di una maggiore economia di gestione che dovrebbero produrre un vantaggio per i cittadini, ma che abbiamo visto si risolvono nella maggior parte dei casi in un aggravio dei costi di utilizzo e in un peggioramento del servizio. Il vantaggio economico –quando esiste8- non si riversa quindi sui cittadini, ma rimane circoscritto nell’ambito dell’amministrazione pubblica, che potrà far confluire quanto risparmia con la privatizzazione verso altre attività9.

Per quanto riguarda i musei, lo stato italiano ha dimostrato ampiamente negli anni passati la sua incapacità e realizzare strutture funzionali, produttive sul piano culturale, capaci di una gestione oculata delle risorse economiche e di personale10, ed ha ritenuto di superare tale incapacità affidandosi all’organizzazione privata -ritenuta più agile e più efficiente- facendo balenare la possibilità di un’ampia redditività di queste strutture.

7 Fumaroli M., 1993 – Lo Stato Culturale, Adelphi, Milano.
8 Spesso, una volta effettuata la privatizzazione di un certo servizio, l’ente pubblico è costretto a finanziare la nuova azienda, ormai privata, perché questa garantisca un servizio e costi socialmente accettabili. Nel campo dei beni culturali, lo Stato Italiano trarrà dalla privatizzazione solo risibili benefici economici, in quanto mantiene ancora a se l’onere della tutela, il che implica il lasciare immutate le strutture burocratiche e gli interventi finanziari necessari alla conservazione del patrimonio.
9 Io credo che i risparmi che si ottengono dalle privatizzazioni realizzate in tutti i settori dell’amministrazione pubblica servono a finanziare la crescita dell’apparato burocratico, indispensabile alla conservazione del potere (vedi Pinna G. Fuga dalla burocrazia. In Pinna. G. Fondamenti teorici per un museo di storia naturale. Jaca Book, Milano 1997, pp.127-140).
10 Nell’attuale situazione dell’amministrazione italiana, l’ente pubblico non ha la possibilità di gestire le proprie istituzioni con criteri di funzionalità e di economia, in quanto l’alto tasso di burocratizzazione impedisce il controllo delle strutture. Vi è infatti un rapporto diretto fra il livello burocratico di un’organizzazione e la sua capacità di controllo su se stessa: più è alto il livello burocratico di un’organizzazione pubblica e meno questa organizzazione ha il controllo delle proprie strutture. D’altro canto un alto tasso di burocrazia è funzionale alla conservazione del potere (pinna 1997 op.cit.), il che rende la privatizzazione quasi indispensabile. Il diverso grado di efficienza fra strutture pubbliche e organizzazioni private, risiede solo livello di burocrazia cui esse sono sottomesse; tuttavia la differenza fra pubblico e privato diviene sempre minore nel momento in cui uno Stato imbriglia l’attività privata in regole caratterizzate da un tasso di burocrazia sempre più alto.

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Purtroppo la situazione della redditività della cultura in generale, e dei musei in particolare, non è quella che è stata disegnata dagli economisti, nei numerosi trattati che essi hanno prodotto negli ultimi anni. Il museo è un’azienda che ha talmente tanti settori improduttivi che può –forse- raggiungere la parità di bilancio solo se abdica alle sue funzioni culturali fondamentali, se taglia le attività improduttive –studio scientifico, comunicazione culturale- avvicinandosi sempre più a un qualche cosa che sta fra il centro commerciale e il Luna Park.

Mentre la redditività diretta di un museo che conservi tutte le sue funzioni è risibile, e non copre che una minima parte dei costi di gestione11, queste istituzioni sono invece importanti catalizzatori per le economie locali. La presenza di un museo richiama in una città flussi di persone che alimenteranno le economie locali utilizzando ristoranti, trasporti, alberghi, ecc.12.

Molti paesi –fra cui al primo posto la Francia13- hanno compreso che esiste un terzo tipo di redditività dei musei e, in generale, del patrimonio culturale, quella redditività che Adam Smith suggerì già nel 1776, quando scrisse che “Superbi palazzi magnifiche case di campagna, grandi biblioteche, ricche collezioni di statue, di quadri e di altre curiosità dell’arte e della natura costituiscono spesso ornamento e gloria, non solo della località che le possiede, ma anche di tutto il paese. Versaille abbellisce la Francia e le fa onore, come Stowe e Wilton fanno onore all’Inghilterra. L’Italia attira ancora in qualche modo i rispetti del mondo per la moltitudine di monumenti di questo genere che possiede, sebbene l’opulenza che li ha fatti nascere sia decaduta, e che il genio che li ha creati sembri del tutto estinto…”(In Ricerche sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni). Si tratta del vantaggio economico che viene ad un paese dalla crescita culturale della società e dall’aumento di autorevolezza nel confronto delle altre nazioni. È indubbio infatti che l’autorevolezza culturale di una nazione è un motore importante per lo sviluppo degli scambi commerciali e che la crescita culturale della società è un elemento fondamentale dello sviluppo economico

11 Raramente un museo riesce a guadagnare con la vendita dei biglietti e dei gadgets, con la gestione del bookshop e dei servizi di ristorazione, una cifra pari al 20% del proprio fabbisogno finanziario (per dati recenti vedi Mottola Molfino e Mirigi Govi 2004, op.cit.).
12 Come ho avuto modo di accennare parlando del fenomeno mediatico legato al Guggenheim di Bilbao, le economie indotte possono essere pericolosamente instabili, perché dipendono dagli umori della moda o –come nel caso di Bilbao- da poteri esterni al tessuto economico locale. Proprio nel caso del museo Guggenheim di Bilbao le attività del museo che ne determinano il successo o l’insuccesso, e che hanno un riflesso sull’economia della città, non sono decise in sede locale , ma a New York, ove ha sede la fondazione.(Pinna G., 2004 – Il museo verso l’ignoto. In F.Lenzi e A.Ziffereto (a cura di) Archeologia del museo. IBC. Editrice compositori, Bologna: 3-10).

13 La crescita dell’autorevolezza della nazione è stato l’obiettivo che ha guidato la politica culturale della Francia negli ultimi decenni, concretizzata nella politica dei Grand Travaux. Per quanto riguarda i musei, questa si è risolta in una successione di realizzazioni dello Stato (Beaubourg, Cité del Sciences et de l’Industrie, Musée d’Orsay, Grand Louvre, Grand Galerie de l’Evolution, Musée des arts e métiers, Musée Guimet, il Musée des arts premiers attualmente in costruzione al quai de Branly), ma anche in una valorizzazione della provincia (Musei di Nantes, di Caen, di Metz, di Marsiglia, di Digione e di Corte, lo spostamento a Marsiglia del Musée des arts et traditions populaires con il nuovo nome di Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée). Operazioni non sempre indolori, e non immuni da polemiche, come è stato per l’installazione di un settore di arte extraeuropea al Louvre e per il progetto del Musée des arts premiers. Per la verità anche la Francia non è stata immune dall’idea che si potesse ricercare una redditività diretta attraverso la gestione delle attività museali. Fu così creata la Réunion des Musées Nationaux, un’organizzazione commerciale e di produzione che avrebbe dovuto, con i suoi introiti, dare impulso all’acquisto di opere d’arte per i musei, ma che viene oggi messa in discussione non riuscendo a centrare gli obiettivi che erano posti alla base della sua costituzione.

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Sia l’economia indotta, sia la redditività che deriva a una nazione dalla crescita di autorevolezza, non possono spingere gruppi privati a intervenire finanziariamente sui musei, in quanto l’economia indotta non costituisce una fonte di guadagno, ma il beneficio economico si suddivide su imprese diverse dal gestore del museo, mentre la crescita di autorevolezza e della cultura sociale sono troppo lontane dagli interessi immediati di un gruppo privato che cerca nella cultura una rendita immediata. 14

La redditività indotta e la crescita culturale del paese devono invece interessare lo Stato, che nella sua funzione di organizzatore della politica economica nazionale ha interesse a mantenere il controllo delle istituzioni che contribuiscono, seppure solo parzialmente, alla crescita economica della nazione. Sarebbe logico quindi che lo Stato rifuggisse dalla privatizzazione delle istituzioni culturali.

Conclusione

A giudicare dal Codice, sembra che la politica culturale e la politica economica dello Stato italiano abbiano imboccato una via che ignora le potenzialità insite in una gestione del patrimonio che persegua obiettivi più ampi di una redditività immediata e diretta. Ciò è dovuto, probabilmente, a due fattori: da un lato l’incapacità della burocrazia amministrativa italiana a mettere in atto strategie e a delegare risorse che avviino una politica culturale in grado di promuovere l’autorevolezza alla nazione; dall’altro la visione mercantile espressa del governo che ha prodotto il Codice, secondo cui ogni attività deve svolgersi in regime di impresa ed essere selezionata dalle regole del mercato. Un fattore, quest’ultimo, dettato soprattutto dal bisogno crescente di danaro indispensabile al mantenimento e all’alimentazione di un apparato politico che diviene sempre più invadente, monumentale e gigantesco., e che il paese non può più permettersi.

E’ stato scritto che una comunità che basa la sua forza e il suo stesso essere sul danaro o sul potere, e non sulla storia e sul ricordo delle conquiste del pensiero, è povera e infelice, ed è destinata all’oblio. Lo stato non può dunque abdicare con leggerezza ad una delle sue funzioni fondamentali, quella di garantire l’identità della nazione, seppur seguendone nel tempo le modificazioni, poiché così facendo, non solo sottrarrebbe a se stesso una parte consistente della sua stessa ragion d’essere, ma condannerebbe la Nazione a un incerto futuro.

Fra i 184 articoli del Codice io avrei perciò voluto leggere altre dichiarazioni: che il patrimonio culturale è un bene inalienabile che appartiene a tutta la comunità, che deve essere gestito dalla comunità attraverso gli organismi democraticamente eletti, che nessuno ha il diritto di delegare la gestione del patrimonio a un gruppo non rappresentativo della comunità, che la delega della gestione del patrimonio è un abuso di potere a danno della comunità e che, come tale, la privatizzazione del patrimonio culturale pubblico, in qualsiasi forma sia effettuata, è un atto illegale, un vero e proprio saccheggio operato ai danni della società15.

14 Pinna G., 2000 – L’immateriale valore economico dei musei. In Pinna G. e Sutera S.: Per una nuova museologia. Atti del Convegno L’immateriale valore economico dei musei, Milano 29 aprile 1998. Icom Italia, Milano pp.3-6.
15 Le mie, come quelle di molti altri italiani, sono vane speranze: dopo poco più di un anno dal varo del Codice dei Beni Culturali il Governo Italiano ha perpetrato un altro delitto contro il patrimonio nazionale, varando, il 16 ottobre 2003, la legge n.291 “disposizioni in materia di interventi per i beni e le attività culturali, lo sport, l’università e la ricerca e costituzione della Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo –ARCUS S.p.a. La creazione della società per azioni ARCUS

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–un’idea non del tutto originale in quanto mutuata dalla Società per i Beni Culturali (SIRBEC) prevista (legge n.352 del 1997) da un governo di colore opposto all’attuale (diamo a Cesare quel che è di Cesare!)- significa di fatto la privatizzazione del Ministero per i Beni Culturali, di cui ha praticamente tutte le funzioni. La ARCUS Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo, ha infatti per oggetto “la promozione e il sostegno finanziario, tecnico-economico e organizzativo di progetti e altre iniziative di investimento per la realizzazione di interventi di restauro e recupero dei beni culturali e di altri interventi a favore delle attività culturali e dello spettacolo…”. Non voglio andare oltre, ma devo osservare che la creazione di una società che assume in se le funzioni che in un paese democratico sono svolte da una frazione dello Stato è un passo importante verso la privatizzazione dello Stato stesso, verso un’organizzazione statale in grado di operare al di fuori del controllo dei cittadini.