Un semplice accenno nell’introduzione e nel comunicato del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana (Cei) del 23-25 marzo: tutte le 226 diocesi si sono date i referenti per gli abusi e sono nati 140 centri di ascolto per le vittime.

Dietro le cifre si sta elaborando la via italiana per affrontare la questione. La bufera che ha messo in seria difficoltà la Chiesa universale (dal Cile alla Germania, dall’Australia all’Irlanda) verrà affrontata dai vescovi del nostro paese che, nel prossimo mese di maggio, dovranno discutere e votare l’ipotesi di lavoro prevista.

L’impegno non sarà solo interno alla Chiesa, né ci si affiderà al commissioni esterne o ad iniziative parlamentari.

La scelta si orienta su un doppio binario. La Chiesa fornirà tutti i dati relativi ai casi esaminati ai vari livelli di giudizio. Dal versante del governo, in maniera del tutto autonoma, partirà una inchiesta nazionale sul problema della violenza ai minori su tutto lo spettro sociale: scuola, sport, Chiesa, famiglia ecc.

Il lavoro ecclesiale si gioverà di tutti gli archivi diocesani, religiosi, vaticani (per quanti riguarda l’Italia) e chiederà aiuto ai tribunali civili per le sentenze che hanno interessato preti, religiosi/e, laici attivi in spazi ecclesiali. Dal versante governativo ci si attende un impegno corposo e si garantisce una collaborazione piena.

IL DOPPIO BINARIO

L’indagine ecclesiale dovrebbe riguardare gli ultimi due decenni (dal 2001 in poi), così come dovrebbe essere sul versante politico. Un arco temporale più lungo come scelto dai francesi (1950-2020) o dagli australiani (1950-2010) o dai tedeschi (1946-2014) riesce più difficilmente gestibile: gli archivi  sono molto differenziati, spesso assenti, e i profondi cambiamenti della sensibilità pubblica chiederebbero una indagine diversificata anche per territori e ceti sociali.

Succede, per il caso francese al esempio, che il fenomeno delittuoso sia più esteso nel primo ventennio (1950-1970), dove è più difficile il recupero dei fatti e dei protagonisti. Il riferimento delle discussioni interne alla Cei guarda anzitutto alla Francia e alla sua Commissione (Ciase).

Perché non seguire quella strada, sostenuta e additata da molte associazioni (dalle Caritas agli scout, dai cristiani “critici” alle riviste e blog ecclesiali)? Le risposte sono sostanzialmente queste: a) i numeri (216.000 vittime) e il loro impatto non può essere supportato solo da una inferenza statistica di una indagine sociologica, pur ben condotta. Essa porta, ad esempio, ad attribuire 63 vittime per ogni abusante, risultato che non è confermato dalla letteratura scientifica; b) la responsabilità dei vescovi non può esaurirsi nell’avvio e nella successiva recezione dei risultati. Solo se coinvolti la corresponsabilità collettiva emergerà con forza; c) a partire da una immagine il più possibile realistica le necessarie riforme, disposizioni e norme non nasceranno dalla cultura mediale, ma potranno avere ragioni interne per un corso definitivo. Resta il fatto che, seppur rifiutata, la via della Ciase è stato ed è il riferimento. Lo conferma l’ipotizzata apertura a centri di ascolto pubblici in merito al problema abusi, nella convinzione che le vittime non abbiano piena fiducia nel luoghi (ancorché riservati) della Chiesa.

Più in generale la Chiesa italiana può oggi scegliere una propria via perché la sensibilità pubblica e la spinta mediale non hanno raggiunto il punto critico rilevato in altre nazioni e contesti.

È difficile attribuire questa situazione a un ritardo di sensibilità o di ethos collettivi in base a uno pigro schema mentale: le società del Nord Europa sarebbero più avanzate di quelle del Sud. Difficile anche attribuire il tutto al potere della Chiesa.

Nessun vescovo oggi è in grado di condizionare il direttore di un giornale. Gli scandali ecclesiali hanno più facile corso sui media di quelli economici e amministrativi.

La grande credibilità del papato e il consenso a figure ecclesiali territorialmente importanti costituiscono un guadagno significativo.

La messa in opera di strumenti interni di controllo e prevenzione, seppure ancora iniziali, abbassano il profilo non dello scandalo, ma della sua risonanza.

Così come l’assenza o la fragilità di forme organizzate da parte delle vittime che avrebbero la credibilità per imporre il problema.

Forse la diffusa percezione della fragilità delle nostre istituzioni pubbliche rende più attente le classi dirigenti e la gente rispetto alla possibile delegittimazione della Chiesa. Senza ignorare le critiche diffuse alla funzionalità della nostra giustizia o al coraggio del nostro giornalismo di inchiesta.

L’ATTESA DEI TEOLOGI

La spinta per una commissione indipendente è confermata da due eventi recenti. Il primo è l’avvio (15 febbraio) del Coordinamento contro gli abusi, sostenuto da una mezza dozzina di sigle di associazioni ecclesiali. Esso ha ricevuto qualche riscontro all’estero, ma molto meno in Italia.

Il secondo, di maggiore consistenza, è l’appello di una quarantina di teologhe e teologi italiani, apparso il 9 marzo su Settimananews. In esso si auspica l’istituzione di una commissione indipendente esterna  sugli abusi sessuali e di potere avvenuti nella Chiesa italiana.

È stata la pressione di istanze laiche come la magistratura e i media a spingere la Chiesa cattolica a dover fare chiarezza al suo interno e a rispondere alle domande esterne.

«Il mondo» non ha solo qualcosa da aggiungere alla competenza umana della Chiesa, ma è un interlocutore che nelle sue dimensioni migliori può suggerire alla comunità ecclesiale una maggiore fedeltà evangelica. Il card. Martini l’ha chiamava la «cattedra dei non credenti».

Roberto Maier, uno dei firmatari, ha scritto: «Una commissione di inchiesta non ha solamente il compito di attribuire colpe e responsabilità, ma anche di restituire una visione più chiara, un quadro più completo di una vicenda i cui tratti non sono solo inquietanti, ma soprattutto poco definiti, almeno nel contesto italiano. Affinché una comprensione del fenomeno sia possibile, c’è bisogno di conoscere meglio non solo i processi umani che soggiacciono al fenomeno degli abusi, ma anche la logica soggiacente alla reticenza (che dovrà essere, appunto, valutata) da parte dell’istituzione nel denunciare, nel dare credito alle vittime, nel far fronte in modo efficace».

La sollecitazione è coerente con il superamento dell’autoreferenzialità ecclesiale, con la “Chiesa in uscita” e con la “riforma della Chiesa”. «Queste tre locuzioni – annota Andrea Grillo – stanno in rapporto molto più stretto di quanto si pensi e anzi solo nel mostrare chiaramente la correlazione tra le tre frasi si può evitare di cadere nell’uso retorico di esse, cosa che evidentemente resta sempre possibile.  Proviamo a dirlo con un’immagine che Francesco, prima di diventare papa Francesco, ossia qualche giorno prima del conclave del 2013 aveva espresso in forma ironica. Citando il libro dell’Apocalisse, nel passo in cui il Signore sta alla porta e bussa, diceva il card. Bergoglio “Proviamo a pensare che bussi, non per entrare, ma per uscire. Lo abbiamo chiuso dentro”. Ecco l’immagine che ci permette di capire che l’autoreferenzialità ecclesiale, dalla quale dobbiamo liberarci, chiede una uscita e una riforma».

La Chiesa come ordinamento ecclesiale autonomo non sembra finora aver garantito giustizia alle vittime, aver preso cura del loro cammino.

«Ciò che tutti noi, oggi, guardiamo con doloroso stupore – si dice nell’appello – è proprio l’incapacità del corpo ecclesiale (in particolare nella sua componente ministeriale) di accorgersi del male e di farvi fronte. Le ricadute di questa scoperta sono ancora tutte da comprendere e, come teologi e teologhe, non verremo meno a questo compito. Una, tuttavia, è da subito evidente: la Chiesa deve oggi guardare con gratitudine quella parte della società civile e della cultura contemporanea che, con responsabilità, la mette di fronte al suo peccato e alle sue incoerenze».

«Per questo motivo, chiediamo ai vescovi italiani di istituire una commissione che attinga a competenze esterne, della cui credibilità non si possa dubitare e che sappia assumersi un compito di intelligente ascolto delle vittime e di responsabile cura nei confronti delle ferite del corpo ecclesiale, quelle che noi abbiamo per molto tempo nascosto ai nostri stessi occhi».

Tra i firmatari troviamo qualche nome eccellente come Giuseppe Ruggieri, Massimo Faggioli, Simone Morandini, Antonio Autiero, Riccardo Battocchio, Basilio Petrà. Si possono riconoscere le nuove generazioni come Ernesto Borghi, Brunetto Salvarani, Leonardo Paris, Marcello Neri e, soprattutto le teologhe: da Maria Cristina Bartolomei a Marinella Perroni, Serena Noceti, Silvia Zanconato, Lucia Vantini. La scelta a cui si avviano i vescovi non sarà esente dal pungolo di chi nella Chiesa pretenderà giustamente trasparenza, competenza e coraggio.

I GIORNALISTI

Nell’ormai quarantennale denuncia degli abusi dei chierici (le prime segnalazioni sono degli anni ‘80) si sovrappongono linee di forza e dinamismi che si condizionano reciprocamente: la denuncia dei giornali e dei media, le sentenze dei giudici, l’opera delle commissioni statali e delle autorità indipendenti avviate dalle Chiese locali.

Fra gli anni Ottanta e Novanta le denunce nascevano molto spesso dai media con i toni e le forme degli scandali pubblici senza particolare attenzione alle responsabilità interne e alle vittime. Nei primi mesi del 2002 il Boston Globe avvia una serie di approfondimenti d’indagine che svelano l’assoluta inadeguatezza della gestione ecclesiastica dei casi ricorrenti di abusi. Particolare clamore all’evento è dato da un successivo film di grande successo, Spotlight.

Decisivo è il formarsi di associazioni delle vittime come il Survivors Network. Comincia a svilupparsi anche il lavoro clinico e terapeutico sui chierici abusatori. Dal 1992 è attivo il Saint Luke Institute (a Washington) che produce i primi risultati in ordine ai sintomi, alla dipendenze, al discernimento clinico e agli indirizzi di cura  degli aggressori. La denuncia dei media è diventato uno degli elementi stabili per il riconoscimento pubblico degli abusi nella Chiesa.

È successo anche in Polonia dove nel 2018 il film Kler sulle ambiguità drammatiche di tre preti ha avuto un impatto decisivo per imporre il problema alla Chiesa e alla società polacca. Del resto si deve anche alle denunce del giornale spagnolo El Pais se ora (10 marzo) la Chiesa spagnola aderisce alla decisione parlamentare di avviare una inchiesta nazionale in merito.

I GIUDICI

Il caso più clamoroso di scontro giudiziario rimonta al 2001, quando il tribunale civile francese condannò il vescovo Pierre Pican (Bayeux-Lisieux) a tre mesi con la condizionale per non aver denunciato alla magistratura un suo prete colpevole di abusi. La sua rigida difesa dell’autonomia giurisdizionale ecclesiastica e del segreto professionale non fu apprezzata dai giudici. I vescovi, nelle loro assemblea generale di quell’anno, lo accolsero con un vasto applauso.

Anche se, proprio in quell’occasione venne pubblicato il primo documento in cui si invitava a non dare copertura alcuna agli abusi. A testimonianza del totale cambiamento di clima va segnalato che nei primi mesi del 2022 molte diocesi di Francia hanno sottoscritto con le procure un testo di riferimento per l’aiuto della polizia nelle inchieste interne.

Limitandomi ad alcune figure apicali, travolte dalla bufera mediale, ricordo la condanna civile all’ex-cardinale statunitense Thedodore McCarrick, accusato di molestie sui seminaristi. Ridotto allo stato laicale nel 2019, la sua vicenda è stata affrontata in un rapporto sella Segreteria di stato vaticana (oltre 400 pagine) che ricostruisce in maniera precisa l’intera vicenda.

Sentenze civili opposte per il cardinale australiano George Pell, accusato di molestie sessuali, condannato in prima e seconda istanza e, infine scagionato nel 2020. Simile la sentenza del tribunale per il cardinal Philippe Barbarin, scagionato dall’accusa di coprire i colpevoli di abuso nel 2020. Va anche segnalato l’inutile accanimento del tribunale di Bruxelles conto il card. Godfried Danneels per una presunta complicità con gli abusi del vescovo Roger Vangheluwe nel 2010.

Diversi i casi dei cardinali Hans Hermann Groȅr (Austria), denunciato e mai inquisito, che si è portato nella tomba i suoi segreti nel 2003, e del polacco Henryk Gulbinowicz, condannato dal tribunale ecclesiale su questioni di abusi e accusato anche di essere stato a lungo informatore dei servizi segreti del regime comunisti (2020).

LE COMMISSIONI

Pubblici e quindi più noti i risultati delle commissioni statali o indipendenti. Così il John Jay Report negli USA (2011), il Deetman Report in Olanda (2011) e il Royal Commission Report in Australia (2017). Di quest’ultimo hanno impressionato i numeri: 17.000 vittime dal 1950 al 2010 e una percentuale dei preti accusati del 7% e, in alcune diocesi, del 15%. Il rapporto dei vescovi tedeschi nel 2018 parla di 1670 chierici predatori (sottoposti a giudizio canonico 566) e di 3.677 vittime fra il 1946 e il 2014. La media nel clero è di 4,4%.

Due i rapporti irlandesi (Ryan e Murphy) che hanno prodotto una tempesta civile e una forte critica alla Chiesa cattolica. Si può accennare anche al rapporto del procurato della Pennsylvania (Stati Uniti) del 2018 che denuncia in sei delle otto diocesi dello stato oltre 1.000 vittime in capo a 301 sacerdoti nel corso di 70 anni. Fra le autorità indipendenti la più nota e recente è quella francese (Ciase). Il 20 gennaio di quest’anno è stato pubblicato il rapporto di uno studio legale su incarico della Chiesa locale sui casi di abuso a Monaco di Baviera fra il 1945 e il 2019, divenuto noto per il coinvolgimento discusso di Benedetto XVI quando era vescovo della diocesi.

TRE VERIFICHE

Contestualmente si dovrebbe raccontare gli orientamenti e le decisioni che la Santa Sede ha prodotto nel frattempo, con la sorpresa, soprattutto nell’ultimo decennio, di una funzione fortemente propulsiva del centro sulle periferie. Basta accennare alle tre lettere papali: ai cattolici d’Irlanda (Benedetto XVI, 2010); ai vescovi del Cile (Francesco, 2018); al popolo di Dio (Francesco 2018). Qui il papa ha scritto: «Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio.

Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione.

La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo.

Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale” (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11)».

Tornando al caso italiano sono tre le verifiche più importanti del lavoro che dovrebbe iniziare. Anzitutto il ruolo delle vittime. Non solo come riconoscimento del male perpetrato, ma come fonte di interpretazione di quanto è avvenuto.

Nel rapporto francese (Ciase) si legge:  «Nel corso dei mesi si è progressivamente imposta una convinzione: le vittime hanno un sapere unico sulle violenze sessuali e solo loro possono condurci a diffonderlo. Non era più solamente un’inchiesta, la cura o la denuncia alle autorità giudiziarie, ma una questione di empatia e di comprensione profonda del nostro mandato. Le persone era vittime. Sono diventate testimoni e, in tal senso, attrici della verità. È grazie a loro che il Rapporto è stato pensato e scritto. È stato fatto per loro oltre che per i nostri mandanti. Su questo scambio singolare e impalpabile è stato costruito, senza che questo non fosse chiaramente pensato fin dall’inizio» (par. 0012).

Le domande giuste sono le loro. In secondo luogo il problema della dimensione sistemica degli abusi nella vita della Chiesa. Gli abusi non sono elementi marginali facilmente aggiustabili, ma segnalano un malfunzionamento di alcuni snodi centrali della vita ecclesiale.

Infine, le indicazioni per le riforme necessarie. Sempre in riferimento al testo francese, si possono indicare: la revisione della teologia del ministero, preti sposati e segreto della confessione. Il prete non è sopra la comunità, non è in possesso di un potere sacrale.

Anche il celibato, di cui non si chiede l’abolizione, non va enfatizzato. Le esigenze pastorali richiedono di aprire la possibilità a uomini sposati di esercitare il ministero.

Gli abusi vanno collocati non in riferimento al sesto comandamento (Non commettere atti impuri), ma al quinto (Non uccidere). Anche il segreto confessionale davanti alla possibilità che il penitente-predatore possa a breve  delinquere dovrebbe essere sospeso.

Se gli abusi sono l’immagine della de-formatio Ecclesiae, la risposta non può che essere la re-formatio Ecclesiae, la riforma della Chiesa.