Quella memoria corta dell’ex presidente del Consiglio allergico a ogni critica.

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di Gian Antonio Stella

«Gli piace il premier che non deve chiedere mai, quello che usa “Arrogance”». Indovinello: l’ha detto D’Alema contro Renzi? No, la compagna Fulvia Bandoli contro Massimo D’Alema. Bersagliato per anni esattamente per l’atteggiamento un po’ prepotente che oggi «Baffin di ferro» rinfaccia al presidente del Consiglio.
Intendiamoci, capita spesso in politica che il bue dia del cornuto all’asino. Ma chi ha un pizzico di memoria non ha potuto trattenere una risata ascoltando ieri l’ex segretario, ex presidente della Bicamerale, ex capo del governo, ex candidato al Quirinale e poi alla carica di ministro degli esteri dell’Ue, lanciare contro il premier fiorentino l’accusa di avere «un certo grado di arroganza». E non perché sia strampalata, visto che l’insofferenza di Renzi alle critiche è stata più volte lamentata da altri. Ma per il pulpito da cui veniva.
Nessuno come «la volpe del Tavoliere» (copyright di Luigi Pintor) infatti, si è tirato addosso negli ultimi vent’anni la stessa critica. E spesso proprio da sinistra. In nome della quale, estrosamente scravattato, ieri parlava. «D’Alema ha un atteggiamento proprietario del partito», denunciava Gloria Buffo. «Ci vorrebbe un po’ di meno “io” e un po’ di più “noi”», attaccava Claudia Mancina. «Questi qui si sentono migliori del Paese che governano, dell’opinione pubblica, delle cosiddette parti sociali e, se mi posso permettere, degli intellettuali e dei professori», sbuffava Gianfranco Pasquino: «Un atteggiamento classico dei costruttori di regimi: il meglio è al governo, lasciateci lavorare». E Giulia Rodano riassumeva un intervento del «lìder màximo», con parole micidiali: «Il discorso suonava così: la leadership dell’Ulivo spetta alla sinistra e la sinistra sono me».
Ancor più da sinistra Fausto Bertinotti, infastidito dalle ironie sui suoi modi da primadonna, rideva: «In fatto di boria non mi metterei mai in competizione con lui: è il Massimo». E resta indimenticabile il corsivo de «la jena» su «il manifesto» dopo la presa di Palazzo Chigi da parte del Cavaliere nel 2001: «”Non temo il governo Berlusconi perché non credo riuscirà a realizzare quanto ha promesso. Temo piuttosto l’occupazione del potere, vizio antico”, ha detto l’onorevole D’Alema. Preoccupazione fondata, tanto più se espressa da un esperto della materia».
Non diversamente la vedevano diversi compagni di strada. Come il socialista Roberto Villetti: «Parla come il capo di un monocolore». O Antonio Di Pietro: «Deve smetterla di pensare di essere un viceré circondato da attacchini o da portatori d’acqua». Finché, quando il luminoso destino al quale sembrava avviato cominciò a oscurarsi, Achille Occhetto e cioè la prima vittima dei suoi modi spicci da rottamatore («Mi disse: “Achille, sei tecnicamente obsoleto”») lo liquidò velenosamente così: «Se è solo non se ne può lamentare. Ha cercato questa solitudine, voleva le mani libere per esaltare le sue mirabolanti capacità…».
Difficile negare che l’allora astro nascente della sinistra avesse fatto di tutto per tirarsi addosso certe critiche. Lo stesso Francesco Cossiga, il primo sponsor del «giovane statista» («Sto diventando un dalemiano di ferro») che per lui meritava l’appoggio nella scalata a Palazzo Chigi, a un certo punto sbottò: «Complimenti vivissimi. Ormai non è più solo il leader del Pds. È anche il leader dell’Ulivo. E se va avanti di questo passo prima o poi diventerà anche il leader del Polo». Fino a spazientirsi: «Ha una vocazione alla totalità: lui al centro e gli altri satelliti. Vuole essere il tutto. E invece in democrazia si può essere solo una parte».
Lo stesso «Baffin di ferro» fece di tutto per tirarsi addosso certe accuse, certe diffidenze, certi sospetti. In particolare ostentando l’allergia a ogni critica. Battute e battutacce di cui gli archivi traboccano. «Una corrente non la voglio. Inesorabilmente avrebbe una maggioranza di stupidi». «Peggio della sinistra c’è solo la destra». «Non leggo Parlato in Italia, figuriamoci all’estero». «Tendo a pensare che i miei critici abbiano torto» «Mi piaccio, non lo nego. So di avere molti difetti ma nondimeno sono abbastanza soddisfatto di me». Fino ad alcune freddure che gli sarebbero state rinfacciate per anni. Come quella sull’incapacità di capire di Sergio Cofferati, ai tempi in cui era il leader indiscusso del sindacato: «Lo spiegheremo anche al dottor Cofferati…». O sugli alleati di governo: «La mia maggioranza? Un mezzo partito, cioè i Ds, e dodici virus». Al che l’allora verde Carlo Ripa di Meana saltò su invelenito: «È un uomo d’insopportabile arroganza. Giunto in età matura, continua a gettare molotov non più su poliziotti e carabinieri ma sugli alleati».
Ogni tanto, quando le critiche riprese dai cronisti (le famose «iene dattilografe») gli creavano problemi, si sfogava: «Non capisco davvero come si sia creata questa immagine di me». Fatto sta che il ritratto più feroce glielo fecero Gino e Michele, gli autori di «Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano» che proprio all’ Unità erano cresciuti: «Ormai Massimo D’Alema è così pieno di sé che sul cruscotto della sua auto ha messo una calamita con la foto di Gesù che lo guarda e la scritta: “Papà, non correre”».