Quella catena di verbali sospetti nella caserma dei misteri.

CARLO BONINI GIUSEPPE SCARPA,
ROMA
Il 4 maggio scorso, nel suo ufficio di viale Romania, il generale di corpo d’Armata Giovanni Nistri, Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, incontra Ilaria Cucchi. È la prima volta che parla con la sorella di Stefano. Seduti con loro sono Fabio Anselmo, avvocato della famiglia, e l’allora capo di stato maggiore Gaetano Maruccia. Di quella prima conversazione Ilaria Cucchi conserva un ricordo sgradevole. «Mi lamentai che il maresciallo Roberto Mandolini, indagato per i falsi sull’omicidio di mio fratello, continuasse a postare su Facebook commenti intollerabili. Chiesi perché il Comando continuasse a non intervenire su quel maresciallo. E aggiunsi che mi davo una sola spiegazione: che Mandolini ricattasse ufficiali di grado superiore coinvolti nell’operazione di depistaggio sulla morte di Stefano. La risposta di Nistri mi gelò. “Noi — disse — non possiamo stare a controllare cosa viene scritto su Facebook. E comunque, chi di noi non ha scheletri nell’armadio?”. Cosa voleva dirmi? Come era possibile che, in quel contesto, il Comandante generale dell’Arma facesse apertamente riferimento alla ricattabilità di chiunque?».
Documenti in possesso di “Repubblica” aiutano, forse, a dare una risposta. Lì dove dimostrano come la catena di comando fosse al corrente di cosa fosse davvero la stazione dei carabinieri di Tor Sapienza.
Quella in cui Stefano, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, verrà trasferito dopo il pestaggio. La stessa dove, per ordine gerarchico, sarebbero stati cucinati almeno due falsi in grado di cancellare le tracce del pestaggio. La stessa, allora come oggi, comandata dall’inamovibile maresciallo Massimiliano Colombo Labriola.
Un passo indietro nel tempo, dunque. È il novembre 2006 e un pm capace e libero da condizionamenti, Francesco Caporale (oggi Procuratore aggiunto a Roma), decide di non trattare burocraticamente una faccenda apparentemente da quattro soldi. Un nomade, tale Nenad Jovanovic, è accusato di un furto in appartamento.
Testimoni hanno riconosciuto e descritto la macchina, una vecchia Audi A6, su cui lui e i suoi complici si sono allontanati, che a lui appartiene e che sarà recuperata abbandonata dopo un inseguimento. Il nomade, tuttavia, offre un alibi. Su quell’auto, dice, non c’ero io, perché mi è stata rubata poche ore prima dell’effrazione nell’appartamento. E la prova — aggiunge — è nella data della denuncia di furto che ho sporto presso la stazione dei carabinieri di Tor Sapienza.
Al pm Caporale qualcosa non torna. La storiella messa insieme dal ladro ha un numero di incongruenze macroscopiche. Il furto dell’Audi A6 è stato infatti curiosamente inserito nel sistema informatico dell’Arma solo il giorno dopo la denuncia.
Di più: «La stessa denuncia di furto — annota il pm — presenta caratteristiche assolutamente anomale. È difforme nel formato tipografico da altre dello stesso tipo raccolte nello stesso periodo dalla stazione. È priva del logo “Repubblica Italiana”. È singolarmente prolissa in ordine alle presunte circostanze del furto. È stata curiosamente raccolta personalmente dal Comandante della stazione, il maresciallo Labriola». Non solo: nessuno ha visto il nomade entrare nella stazione di Tor Sapienza nel giorno e nell’ora (il 4 novembre 2006) in cui risulterebbe aver sporto denuncia. Non i piantoni, non i cittadini quel giorno in attesa in caserma per altre pratiche. Ma, soprattutto e incredibilmente, quando il 7 maggio 2007 Caporale decide di perquisire la stazione di Tor Sapienza per vederci più chiaro, scopre che il computer del maresciallo Colombo Labriola è stato utilizzato alle tre del mattino del giorno in cui la denuncia di furto è stata poi effettivamente inserita nel sistema informatico, il 5 novembre.
Insomma Labriola — è l’accusa che formula Caporale — si è prestato a redigere un falso verbale retrodatato per costruire un alibi a quel ladro di auto con cui per giunta condivide, da quello che l’indagine accerta, «l’imbarazzante frequentazione di uno stesso barbiere e di un tale Kamil, titolare del ristorante “Le Mille e una Notte”, autori entrambi di false dichiarazioni che devono fungere da ulteriore alibi».
All’esito del processo, che comincia il 9 giugno del 2009, il nomade sarà condannato per il furto, il maresciallo Colombo Labriola sarà assolto per insufficienza e contraddittorietà della prova con motivazioni assai singolari. Che non contestano la falsità della denuncia ma dichiarano il maresciallo vittima di un raggiro. Non si sarebbe cioè accorto che il nomade lo aveva preso per i fondelli.
Oggi possiamo dire che in quella storia c’erano le stimmate di quello che sarebbe accaduto nell’ottobre del 2009, quando il maresciallo manometterà le annotazioni di servizio redatte dai piantoni sulla notte trascorsa da Stefano nella sua caserma. E che è impossibile sostenere che la catena di comando non fosse al corrente del processo a carico di Labriola per falso ideologico, simulazione di reato, favoreggiamento.
Non fosse altro perché di pasticci a Tor Sapienza ne accadevano spesso.
Nell’autunno 2009, una nuova denuncia accusa infatti il maresciallo Colombo Labriola e altri due carabinieri, guarda caso indagati anche loro nell’indagine Cucchi (il maresciallo Sabatino Mastronardi e il carabiniere Francesco Di Sano) di aver accollato a un innocente la responsabilità di una rapina aggiustando i verbali dei testimoni che concordemente parlavano di una cicatrice sul volto del rapinatore.
Cicatrice che scomparirà quando del reato verrà accusato un uomo che non l’ha mai avuta. Anche in questo caso, per Labriola e compagni archiviazione e non luogo a procedere. Peccato però che l’uomo da loro accusato di rapina venga poi prosciolto a processo per non aver commesso il fatto.
Devono insomma essere molto fortunati o al contrario molto sfortunati, dipende dai punti di vista, il maresciallo Colombo Labriola e i suoi militari. E deve essere molto distratta la catena di comando in quel 2009 e nei nove anni a seguire per non farsi venire in mente che qualche cosa in quella caserma non funzioni e non abbia funzionato. A meno che non l’abbia volutamente tollerato. Certo, in quegli anni, ai carabinieri di Roma non ne andava bene una. Per dire: nell’aprile 2010 spariscono dagli scantinati della stazione Cinecittà 17 chili di hashish sequestrata agli spacciatori e rubata da alcuni carabinieri che in quella caserma prestano servizio. Nel febbraio 2011, invece, nella stazione Quadraro tre carabinieri e un vigile urbano avrebbero abusato di una donna in stato di fermo. Appia, Casilina, Tor Sapienza, Quadraro, Cinecittà. Se la geografia non è un’opinione l’Arma territoriale nei quadranti sud-est di Roma era completamente fuori controllo. Nessuno evidentemente doveva saperlo.
Fonte: La Repubblica, https://www.repubblica.it/