Quel vuoto dopo Michelucci.

«Il primo gesto che un architetto compie è quello di tracciare un perimetro. Qualsiasi cosa tu stia progettando: un teatro, un tribunale, una chiesa o una moschea, il primo passaggio è connotare un confine. Crei un’ecclesia, una comunità, trasformi una condizione di natura in una condizione di cultura». È in questa chiave che Mario Botta ritiene «che il senso sacro abiti nel fatto architettonico tout-court». E che quando si edifica un muro «si pone un limite» rispetto al quale il sacro deve riuscire a parlare oltre e trovare quello che Le Corbusier chiamava lo spazio dell’indicibile». A Firenze l’architettura sacra è quasi scomparsa dall’orizzonte contemporaneo. Sette anni fa è stata consacrata la nuova chiesa di San Pietro a Varlungo. In precedenza, oltre alla famosa San Giovanni Battista sull’autostrada di Giovanni Michelucci, gli esempi sono esigui: San Piero in Palco a Gavinana, la Chiesa della Pentecoste a Bagno a Ripoli, il «missile» del Sacro Cuore di via Capo di Mondo, la Beata Maria Vergine Madre della Divina Provvidenza di via Dino Compagni, e poco altro. La Basilica di Santo Spirito e la Fondazione Crocevia hanno deciso di riaprire il dibattito invitando uno dei massimi nomi internazionali in questo campo: l’architetto svizzero Mario Botta, autore del progetto di sedici edifici di culto tra cui la cattedrale di Évry, in Francia, e la sinagoga Cymbalista nel campus universitario di Tel Aviv. Mentre è in fase di costruzione di tre chiese e una moschea in Cina, a Yinchuan. Titolo dell’incontro «Lo spazio del sacro», domani alle 17.30 in Santo Spirito, un’anteprima dei Convegni di Santo Spirito del 2018 dedicati al tema «Vedere Dio con gli occhi dell’arte». Con l’introduzione del cardinale Giuseppe Betori e di Giovanni Gazzano, presidente della Fondazione Crocevia.

Come giudica il rapporto tra Firenze e il sacro contemporaneo?

«Dopo Michelucci, c’è poco o niente. Ha segnato una svolta, portando a Firenze segnali di espressionismo in contrapposizione alla razionalità del Bauhaus. Più che alla rispondenza teologica o liturgica, è alla forma espressiva che ha conferito un segnale importante. Dopo di lui, non si è avvertito più alcun cambiamento».

Perché? Cos’è successo?

«È entrata in crisi la capacità dell’architettura di rispondere alla cultura globale. Siamo orfani dei maestri come Le Corbuisioer, Michelucci, Alvar Aalto: il globale ha confuso le menti dal punto di vista ideologico e artistico. La secolarizzazione della società e il Sessantotto hanno messo in crisi la domanda. Questo ha impoverito gli architetti non più in grado di interpretare i tempi».

È cambiata anche la committenza, la Chiesa come istituzione?

«La committenza non ha fornito più strumenti di chiarificazione del ruolo di questi nuovi templi nelle periferie urbane. La mia generazione ha perso la capacità di capire “per quali motivi” si costruiscono i luoghi di culto».

Come giudica questa crisi di progettualità?

«L’architettura è lo specchio impietoso della collettività in cui viviamo. Gli architetti non inventano, interpretano la società».

Cosa chiede la società moderna a un architetto che si occupa di spazi sacri?

«Ciò che chiede è terribile e l’architetto tenta con difficoltà di salvare e recuperare dei valori in un contesto in cui tutto è mercato, moda, consumo».

Come rispondere a tutto questo?

«Lavorando all’interno di quelle nicchie dove ancora sopravvivono dei valori dentro questo grande mercato che è diventato il mondo. Chi riesce a vincere le contraddizioni e a offrire risposte, trova la strada: ci sono esempi di grande qualità da seguire nel mondo come il giapponese Tadao Ando o il portoghese Alvaro Siza che hanno saputo interpretare la storia ma anche la cultura del proprio tempo, l’arte povera, concettuale, le avanguardie».

Come è messa l’Italia in confronto agli altri paesi?

«In Italia si è costruito molto e male. Dovremmo prendere esempio dalla Germania che in Europa è il paese che ha edificato le chiese più belle come recentemente a Lipsia dove l’ultima nata è diventata un esempio di ricostruzione del tessuto urbano e non più un oggetto isolato fine a se stesso. Ma anche in Argentina, Austria, Olanda, e nei paesi scandinavi troviamo ottimi esempi di luoghi di culto diventati momenti di riflessione e critica della struttura urbana in cui si trovano. Gli italiani vivono una profonda difficoltà nel fare propria l’idea di spazio pubblico, la crisi dell’architettura è soprattutto crisi dell’urbanistica, le città perdono identità, tutto è diventato un’enorme periferia e se anche si costruiscono una chiesa o una sinagoga, esse non sono più capaci di salvare l’insieme».

Lei è un architetto per tutte le religioni. Quali spunti trova nella differenza di approccio tra i tre monoteismi?

«Ogni religione porta in sé una parte di ragione, di speranza e di prospettiva. Non si possono confrontare. Se potessi, farei solo luoghi di culto, il bisogno di infinito è comune a tutte le religioni e le differenze non toccano valori funzionali».

Al di là delle differenze di culto, il senso del sacro contemporaneo in cosa si identifica maggiormente?

«Nel silenzio. Come momento e spazio di contemplazione e meditazione, contro il gran correre della cultura del consumo e del mercato».

 

Fonte: Corriere Fiorentino, corrierefiorentino.corriere.it/