Venezia

“Uno sguardo diverso sul Medio Oriente, il film nasce dove si interrompe il titolone, la breaking news, la notizia da consumare: qui c’è qualcosa di più intimo”. Dopo Sacro GRA, Leone d’Oro 2013, e Fuocoammare, Orso d’Oro nel 2016 e candidato all’Oscar, Gianfranco Rosi torna con Notturno, in Concorso alla 77esima Mostra di Venezia, prossimamente ai festival di Telluride, Toronto, New York, Londra, Tokyo e Busan e da oggi nelle nostre sale.

“Non cerco la bellezza dell’immagine, ma la complicità della luce”, premette il regista, eppure il film delega alla bellezza la sopravvivenza dell’umano, e viceversa: un esterno notte girato nel corso di tre anni sui confini “mentali, psicogeografici” fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano riguadagnando la luce nel buio, senza tempo né spazio, tra chi rimane e chi non è più. Dopo i cartelli iniziali che addossano all’ingerenza occidentale la distruzione del Medio Oriente qui e ora, e che stridono con la successiva assenza di indicazioni geografiche, Notturno ci prende per gli occhi e ci mostra i bambini yazidi sopraffatti dall’orrore, le madri yazide a cui l’Isis ha rapito le figlie, le prove teatrali dei pazienti psichiatrici, le guerrigliere curde che si riscaldano, i carnefici di Daesh assiepati nelle carceri, il cantore di strada che sveglia la città lodando Allah, il tredicenne Alì che caccia e assiste cacciatori per sfamare la famiglia, chi tra canneti e crepitio di armi da fuoco insegue la selvaggina.

Cinque i mesi di montaggio durante il lockdown, con “il futuro sospeso, il senso di attesa” che tracimavano la contingenza mediorientale per intercettare la condizione esistenziale della pandemia, oggi Rosi spera che “il pubblico colga il senso incredibile di vita, con la stessa profondità, universalità e identificazione che ho provato io per ciascuna di queste persone”. “La notte perché potesse proteggermi, le nuvole per coro greco”, una macchina da presa “pesante” per trovare un compromesso tra posizione morale e tensione estetica, tra documentario, giacché “come lungometraggio di finzione sarebbe sbilenco e sgrammaticato”, e “un modo di filmare, mi piacerebbe pensare, alla John Ford”.

Il crinale è quello po-eticamente infido dei suoi lavori precedenti, ma il sospetto della teatralizzazione, della coreografia delle azioni e dei sentimenti stavolta è meno vincolante, meno pregiudicante: se il dispositivo si sente, la bellezza di Notturno, anziché imposta e sovrapposta, appare scovata, rivelata e salvaguardata nella realtà che inquadra. Meglio che in Fuocoammare, il calco inibisce il calcolo, “la necessità del racconto” non richiede sacrifici umani. L’eccezione è forse per i bambini yazidi dell’orfanotrofio: sono incontri non protetti, li guardiamo in faccia mentre indicano le teste decapitate e le torture che hanno disegnato, mentre verbalizzano l’inferno. Non sarebbe stato preferibile tenerli fuoricampo o inquadrarne la nuca? “Sarebbe stato ipocrita, piuttosto dovevo trovare la giusta distanza. Quella stanza degli orrori è una Norimberga dove si compie il processo alla storia: avevo dubbi se mettere la scena, come già quella dei cadaveri in Fuocoammare, ma l’avvertivo come il punto d’arrivo, un atto dovuto, una testimonianza fondamentale”. Chissà che il titolo non venga dal leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, chissà che Rosi non si sia sentito sospeso tra la “vergine luna” e “la vita mortale”.