di Michela Marzano
La prima volta che il mio ex-marito mi ha dato uno schiaffo, non ho reagito. Non me l’aspettavo, eravamo in strada, cosa avrei potuto dire o fare? Che cosa avrebbero pensato i passanti? Tanto più che alcune ore dopo, quando lui mi ha spiegato che il modo in cui avevo sorriso all’impiegato della banca era stato inopportuno, sfacciato e allusivo, gli ho dato ragione: dovevo fare attenzione a come mi comportavo con gli altri uomini, era una questione di rispetto nei suoi confronti. Come ho potuto non capire che era solo l’inizio di una storia impastata di violenza? Quando mi sono trasferita in Francia e ho iniziato a lavorare, ho detto al mio ex-marito che volevo aprire un conto corrente a mio nome. Lui mi ha spiegato che era assurdo, eravamo una famiglia, che bisogno c’era di intestarmi un conto? Ho insistito, e lui mi ha strattonato, facendomi cadere a terra. Ma poi, ancora una volta, ho pensato che avesse ragione lui: quello che è mio è tuo, eravamo una carne sola, che mi era venuto in mente? Aveva ragione lui: ero troppo indipendente, troppo sfacciata, troppo individualista. Mi aveva portato a Parigi e accolto a casa sua, come potevo essere così ingrata? Anche se, la sera, lui beveva troppo, gridava che ero una puttana, cos’è questa storia che vuoi andare a cena fuori con una tua amica? All’epoca, non stavo bene. Avevo interrotto la psicoterapia che stavo seguendo in Italia, ma il mio sintomo non era affatto scomparso: controllavo il cibo, quando mangiavo vomitavo, mi sentivo sempre in colpa; inadatta, incapace, indecisa, inutile. Avevo vinto un concorso in università, ma non valevo nulla.
Era questo che pensavo.
E lui, in fondo, mi amava. Anche se, quando decisi di ricominciare l’analisi, l’unica cosa che lui disse fu: «Preferisco vederti morta che pensare che tu possa lasciarmi». Qualche mese dopo, uscendo un pomeriggio dallo studio della mia psicanalista, decisi di non rientrare. E anche se mi ritrovai senza niente, dovetti chiedere aiuto ai servizi sociali e per un po’, oltre al mio lavoro in università, fui costretta a passare molte notti in bianco traducendo dall’inglese al francese documenti giuridici per pagarmi sia l’affitto sia l’analisi, da lui non tornai mai più. È l’analisi, in fondo, che mi ha salvato la vita. E che mi ha permesso di credere di nuovo in me stessa e nel mio valore. E che mi ha fatto capire che nessuna persona merita di essere umiliata, controllata e molestata. Non è normale essere trattata a parolacce. Non è normale essere insultata e picchiata. Non è normale abbandonarsi a chi, dicendo di amarti, cerca solo di utilizzarti e manipolarti. So che il mio ex-marito, nel frattempo, è tornato in Italia. So che si risposato e che è pure diventato padre. E talvolta penso alla donna che ho incrociato molto rapidamente a casa sua quando, scortata da un amico, andai a recuperare alcuni libri. Lui la chiamava “stella”, esattamente come aveva sempre chiamato me. «Mi prepari un caffè», le disse a un certo punto. Poi: «Ora puoi andare nell’altra stanza». Poi: «Mettiti la gonna ché, appena finisco, ti porto fuori». E intanto verificava che il mio nome fosse scritto sulla prima pagina dei libri che volevo recuperare: se non c’era scritto nulla, il libro era suo, come fai a provare il contrario? Penso a questa donna, e mi si stringe il cuore. Può andare a cena fuori con un’amica, oppure le è vietato? Ha un conto in banca a nome suo, oppure ha rinunciato? Come le si rivolge il mio ex? La insulta? La picchia? Può darsi che la nascita dei figli lo abbia fatto cambiare. Può darsi pure che lei lo assecondi sempre e non lo faccia innervosire. Nella vita, tutto è possibile. Anche se non accade praticamente mai che la nascita di un figlio faccia cessare la violenza. E quando una donna asseconda un uomo violento, allora rinuncia alla propria libertà. E rinunciare alla libertà significa poi rinunciare anche alla propria dignità.
Il dramma delle violenze contro le donne, è spesso legato alla fragilità estrema di chi la violenza l’ha subita da bambina, quando non è stata riconosciuta per quello che era e ha iniziato ad adattarsi, pensando di non valere nulla. Il dramma delle violenze è che si perpetuano di generazione in generazione, e spesso passano di madre in figlia. E se nessuno ci permette di avere accesso alla consapevolezza del nostro valore, allora è impossibile anche solo percepire la violenza della gelosia, del possesso e delle umiliazioni, che sono sempre il passo che precede la violenza fisica e, talvolta, il femminicidio. C’è chi pensa che le “vere vittime” siano altre, quelle donne che si ritrovano in ospedale con un braccio rotto o gli occhi pesti. Ma la violenza inizia prima. La violenza è già lì quando si viene azzittite, o chiuse a chiave in una stanza solo perché si vuole stare accanto a un figlio piccolo che di notte piange, o insultate perché «tu non capisci nulla», «non vali un cazzo», «senza di me sei persa». La violenza è bastarda. Si insinua nelle pieghe delle nostre fragilità e ci distrugge. Ci impedisce di credere in noi stesse e di ricominciare tutto da capo. Ci colpevolizza e ci fa sentire responsabili di ciò che viviamo. E poi esplode. Prima o poi, la bastarda esplode sempre. E allora è troppo tardi. E nemmeno le leggi più severe nei confronti degli uomini violenti possono salvare quelle donne che, illudendosi che un giorno o l’altro lui cambi, restano, accettano, subiscono, non denunciano. Sono condannate a morte, anche se non lo sanno. E pure se sopravvivono, muoiono dentro.