Preghiera per la mia scuola

di Stefania Auci
L’aspetto è il solito: un parallelepipedo di cemento e vetro, incastrato tra altre due scuole, un liceo linguistico e una scuola elementare. È il mio Istituto alberghiero, quello in cui insegno da qualche anno. Ne riconosco le scale, i gradini di travertino marcati dalle strisce antiscivolo e dai passi di centinaia di studenti e di professori; ne riconosco le aule e la sala professori.
Eppure è tutto diverso. E non soltanto perché quel sentore familiare, accogliente e un po’ legnoso, di gomma, carta e colori, che riporta sempre alla memoria l’infanzia, è stato cancellato dall’onnipresente odore di disinfettante. È l’atmosfera a essere diversa. È la vita a essere cambiata.
Noi adulti ormai compiamo certi riti con una disinvoltura che mischia rassegnazione e senso di responsabilità sociale. Sbuffiamo, ma ci siamo abituati alla misurazione della temperatura, alla firma della liberatoria, alla disinfezione delle mani, alla mascherina. E, nel loro aspetto “tecnico”, queste sono tutte cose normali anche per i ragazzi.
Ma ecco che, dopo tanti mesi di esilio forzato, è arrivato il momento di dare un senso — individuale e collettivo — al fatto di trovarsi lì, in una scuola, per ricominciare a studiare. La cosa più normale di tutte. E invece tutto diventa incerto, prende una piega quasi crudele. Perché sono troppe le cose che mancano.
I nuovi alunni vengono fatti entrare a uno a uno dai vicepresidi in un atrio assurdamente grande per quella piccola processione che comprende l’alunno e il genitore, il quale di solito oscilla tra l’imbarazzo e la soggezione nei confronti dei docenti che lo osservano.
Sono i più giovani e i più intimoriti: in quel deserto non c’è la possibilità di conoscersi, di chiedersi come mai si è finiti lì, di individuare un compagno con cui fare comunella. La strada per trovare il migliore amico, quello che magari si continuerà a vedere per venti, trent’anni, è sbarrata o, quantomeno, in salita. Ammetto che questi ragazzini, con la faccia ancora sporca di infanzia, mi fanno molta tenerezza: hanno occhi grandi e passi incerti e, allo spaesamento di una nuova esperienza, aggiungono l’incognita di dover affrontare un modo di fare scuola «come non è mai successo», come ha giustamente detto un mio collega.
Diversa è la situazione dei ragazzi del secondo anno, che già si conoscono e che, fuori dai cancelli dell’istituto, si abbracciano, ridono, si danno grandi pacche sulle spalle. Dalla spensieratezza dei loro gesti è chiaro che si sono frequentati anche fuori della scuola, com’è giusto che sia. Ed è evidente che stanno cercando un loro modo di convivere con il virus, magari facendo errori o commettendo qualche leggerezza. Non me la sento di rimproverarli: abbiamo vissuto — noi e loro — mesi di una pesantezza difficili da raccontare, soffocando l’entusiasmo, il piacere di stare insieme. Anzi, a dirla tutta, osservo le loro manifestazioni di gioia e provo un po’ d’invidia. Almeno loro sono riusciti a trattenere qualche brandello di quella normalità che ci è stata strappata via in maniera così traumatica. Almeno loro sono lì: il triennio, per ora, frequenterà le lezioni con la didattica a distanza.
Attraverso quindi una scuola che ha meno della metà degli alunni che dovrebbe ospitare — aule deserte, sedie accatastate contro i muri — e arrivo finalmente dai miei colleghi. Tra strisce di tessuto-non-tessuto azzurro e mascherine ornate, ci si può salutare solo con gli occhi, e le strette di mano furtive sono accompagnate da occhiate a metà tra il rimprovero e il sollievo per potersi finalmente sfiorare, per poter essere di nuovo vicini (toccarsi il gomito no, per ora non sembra una prassi amata o condivisa). Anche per noi insegnanti questo è un momento importante: cosa significa riappropriarsi di spazi che abbiamo lasciato con la convinzione di
ritrovarli, uguali, il giorno dopo e che invece sono rimasti deserti e silenziosi per mesi? Come si torna a fare lezione davanti ad alunni in carne e ossa e non a visi sfocati e ciondolanti? E cosa si ribatte al «tanto apriamo per chiudere tra due settimane» che rimbalza dall’uno all’altro?
Si ribatte nell’unico modo possibile: «Voglio fare scuola con i miei ragazzi in classe». Una frase che è preghiera, desiderio e anche grido di dolore. Non chiedete a noi insegnanti quelle certezze che nessuno vi può dare: come tutti, oscilliamo tra la paura, l’incertezza e la voglia di normalità. Ma sappiamo che s’insegna con il corpo, i gesti, gli sguardi e le parole. E allora, al di là di tutto, oggi mi tengo stretti i versi di Guido Guinizelli che Ettore, un collega di Italiano, si è messo a declamare in sala professori: Adonqua per certanza / non si poria compire / senza lo sofferire / alcuna incomincianza. Parole antiche e belle. Non vedo l’ora di parlarne con i miei alunni.
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