Perché perdono tutti.

 

I leader della Ue
Ormai non passa settimana senza che sulla Rete compaia un altro video di un nuovo genere che si produce in Libia. Di solito durano un trentina di secondi, sono girati con uno smartphone e mostrano un migrante che urla sotto tortura. Queste clip servono ai sequestratori per spedirle via WhatsApp alle famiglie dei migranti presi prigionieri ed esigere un riscatto. Esposte ogni giorno a questi pericoli, attualmente in Libia si stima vivano un milione di persone rimaste intrappolate nel viaggio dall’Africa verso l’Europa. Aspettano il prossimo passaggio. Sono espressione di un miliardo di subsahariani alle loro spalle, alcuni in fuga dalla guerra o dalla dittatura, quasi tutti con un reddito in media undici volte inferiore a quello comune di un europeo. Ieri un’altra nave che ne trasportava un centinaio è affondata nel Mediterraneo: aveva tre bambini a bordo, non se ne sa più nulla.
Dall’altra parte ci siamo noi, naturalmente. Ci sono i leader europei che ieri sono emersi dal loro vertice con un documento in 12 punti sulla migrazione che è parso disintegrarsi al contatto con l’aria al di fuori delle stanze di Bruxelles. Ciò che non è scritto in quel testo resta forse l’unico punto sul quale tutti sono veramente d’accordo: nessun governo democratico può resistere a lungo, quando si diffonde nell’opinione pubblica la percezione di aver perso il controllo delle frontiere.

E nessun politico può assistere senza reagire all’erosione, fra gli elettori, di quel minimo senso di sicurezza che viene dal sapere che i confini possono essere gestiti ordinatamente.

Provate un po’ a conciliare la spinta continua che viene dall’Africa con la fragilità delle democrazie e dei sistemi di cooperazione e competizione in Europa. Ne viene fuori una sola certezza: chiunque proponga soluzioni semplici a problemi così complessi – dall’«accogliamoli tutti» al «fermiamoli tutti e rimandiamoli indietro» – vi sta ingannando di sicuro. Non esistono situazioni semplici. Ancora meno visto il modo nel quale funzionano i leader che l’altra notte erano chiusi in quella stanza a Bruxelles. Sempre più spesso il loro orizzonte non è la ricerca di soluzioni di lungo respiro a un problema comune: è il tempo di un tweet, o di un post di Facebook o i tatticismi che servono per sopravvivere a un avversario interno com’è toccato in questi giorni ad Angela Merkel in Germania. È del tutto evidente che a lei, come al francese Emmanuel Macron, come al vicepremier Matteo Salvini risolvere la grande questione africana per l’Europa interessa molto meno che gonfiarsi nei sondaggi, anche a costo di fare lo sgambetto leader del Paese vicino e esporre il proprio Paese a ritorsioni.

È contro questo stato dell’Europa che va giudicato l’«accordo» uscito ieri. Tutti vi ottengono qualcosa, in apparenza. L’Italia ha un impegno a rafforzare la Guardia costiera libica che fermi e riporti indietro i barconi; un invito alle organizzazioni non governative a «non ostruire» i libici nella loro area (mai resa nota) di «ricerca-e-salvataggio»; e l’idea, molto astratta per ora, di centri per migranti costituiti in Paesi terzi come la Tunisia. La Francia ottiene che Macron si erga a mediatore di un accordo nel quale spicca l’idea di «centri controllati» dove chi sbarca resta chiuso e chiede asilo: è l’idea, cara al leader francese, che l’Italia debba farsi carico di questi centri alla frontiera praticamente per tutti. Infine Merkel ottiene vaghe parole sugli irregolari da rimandare in Italia, che forse le permetteranno di restare cancelliera ancora un po’.

Difficile però scacciare la sensazione che sulla sostanza del problema migratorio non cambi niente, se non in peggio. Non un solo Paese si è detto disposto ad aprire questi «centri controllati» o ad aprire i porti insieme all’Italia. Non è chiaro come rimpatriare chi si vedrà negare l’asilo. Né come possano bastare i fondi messi a disposizione dell’Africa, per dare lavoro ai milioni di giovani che vogliono fuggire di lì. Complica poi il bilancio per l’Italia il fatto che, da oggi, molti governi anche importanti potranno rifiutarsi di accogliere le proprie quote di richiedenti asilo da ricollocare, se noi italiani non avremo costruito quei famosi centri chiusi. Ieri l’Italia non ha vinto. L’Europa nemmeno.

Federico Fubini

Corriere della Sera – 
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