Perché parliamo ancora della Comune di Parigi centocinquant’anni dopo

A distanza di un secolo e mezzo, possiamo ancora dire che il programma di riforme di quell’esperienza di comunismo fa impallidire i progetti politici di oggi

Molti, grazie alla lapide, conoscono il Muro dei Federati, a ridosso del quale il 28 maggio 1871 furono fucilati i 147 comunardi sopravvissuti all’ultima battaglia contro i Versagliesi di Thiers.  Pochi sanno, invece, che – sempre nel cimitero di Père-Lachaise – alla base del mezzobusto di Charles Nodier, situato a pochi passi dalla tomba di Balzac, ci sono ancora i buchi, perfettamente sferici, delle pallottole di uno scontro a fuoco tra le due parti nemiche. Ci sono stato, ci ho infilato l’indice dentro e ho avuto come l’impressione di entrare nella Storia. Sebbene sia durata soltanto 72 giorni, la Comune di Parigi è un grande pezzo di Storia, che festeggia quest’anno il suo centocinquantesimo anniversario.

La Comune di Parigi è il frammento più cristallino di comunismo che l’umanità possa vantare, un governo popolare e democratico, nato dal proletariato, composto soprattutto da operai e artigiani. “La rivoluzione del 18 marzo – disse a un certo punto Leo Frankel, membro della Comune e dell’Internazionale – è stata fatta per la classe operaia, se noi ora non facciamo nulla per questa classe non vedo la ragione d’essere della Comune”.

La Comune di Parigi non ebbe un leader politico, non si trasformò in una dittatura, la rivoluzione e gli intenti rivoluzionari non furono mai traditi. Fu il primo e più avanzato governo proletario della Storia, che parlava a tutta la Francia, all’Europa, al mondo: “Parigi che afferma nuovamente la sua storica potenza d’iniziativa mostrando a tutti i popoli schiavi (e quali sono le masse popolari che non sono schiave?) l’unica via di emancipazione e di salvezza; Parigi che infligge un colpo mortale alle tradizioni politiche del radicalismo borghese e che dà una base reale al socialismo rivoluzionario”, disse Bakunin.

Anni fa ho scritto un romanzo ambientato nei giorni della Comune di Parigi (La Comune 1871, Transeuropa, 2010) e ricordo che le difficoltà maggiori le incontrai nel tenere a bada i fatti della Comune per amalgamarli nel modo più interessante e godibile con le vicende immaginarie della storia d’amore tra due giovani di Montmartre, Nadine e Lucien. Quei fatti, tuttavia, erano talmente originali e potenti da travolgere qualunque paletto romanzesco, ciò che andava raccontato non era la passione tra i due, bensì il loro rapporto con il divenire rivoluzionario. Un amore privato scompare se si tiene conto della fortissima volontà di cambiamento che investì Parigi dopo la sconfitta nella guerra franco-prussiana dell’anno precedente. O della consapevolezza che il senso della collettività è un’arma decisiva se si vuole lottare per un mondo più giusto. Perché il governo della Comune era un esempio di democrazia diretta ed era legittimato non da un partito-Stato, ma dai cittadini.

Centocinquant’anni dopo possiamo ancora dire che il programma di riforme della Comune di Parigi, molte delle quali realizzate, fa impallidire i programmi politici dei governi di oggi. La lista è lunga. In meno di 72 giorni – mentre doveva prima di tutto pensare a difendersi dai bombardamenti dei Versagliesi – la Comune varò i provvedimenti per la soppressione dell’esercito permanente e la sua sostituzione con il popolo armato, la separazione tra lo Stato e la Chiesa, la moratoria degli affitti non pagati a causa della guerra, la restituzione gratuita dei beni impegnati nei Monti di Pietà, l’abolizione della prostituzione, l’abrogazione della pena di morte, l’abbattimento della Colonna Vendôme, che era un simbolo della guerra, il sequestro delle chiese per poter tenere le riunioni pubbliche, l’eleggibilità e il tetto allo stipendio dei dirigenti della pubblica amministrazione.

Decise, inoltre, la riduzione dell’orario di lavoro, l’abolizione del lavoro notturno per i garzoni fornai, la creazione di una scuola laica, il riconoscimento delle coppie di fatto, pari diritti per i figli legittimi e per quelli naturali, il divorzio, la fine dei finanziamenti statali alla Chiesa cattolica, l’esproprio delle fabbriche abbandonate dopo la fuga dei padroni a Versailles, la possibilità di autogestione. Iniziative che, come sappiamo, non ebbe il tempo di realizzare. Unico neo, la mancata concessione del voto alle donne, una misura che sarebbe stata veramente rivoluzionaria.

La leggenda vuole che Lenin, dopo 73 giorni dalla presa del Palazzo d’Inverno, uscì nella neve con una bottiglia di champagne per festeggiare il governo bolscevico, che in quel momento era durato un giorno in più della Comune. Lenin, che si ispirava al primo governo comunista della storia, ne aveva esaminato punti di forza e punti di debolezza e, in particolare, le ragioni della sconfitta. Oltre alla decisione di non appropriarsi dei beni della Banca di Francia e di non marciare immediatamente su Versailles, l’errore più grande della Comune – sottolineato anche da Marx ed Engels in una prefazione a una nuova edizione tedesca del Manifesto del Partito comunista – fu quello di “impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta”.

Per Lenin, come aveva detto Marx, la classe operaia, una volta preso il potere, deve viceversa spezzare, demolire “la macchina statale già pronta” e non limitarsi a impossessarsene. Insomma, deve distruggere prima di tutto l’intero apparato burocratico e militare dello stato “parassita”. Il tentativo fu fatto, grazie all’abolizione dell’esercito permanente e il tetto alle retribuzioni dei dirigenti e dei quadri pubblici equiparate ai salari operai, ma per la repressione nel sangue dell’insurrezione non fu possibile portarlo a termine. Lo riconosce lo stesso Lenin, secondo il quale la Comune creò “un nuovo tipo di Stato, lo Stato proletario”. Non a caso, dice Lenin nella sua “Lettera agli operai d’Europa e d’America” del 21 gennaio 1919, il potere sovietico è il secondo atto storico mondiale o la seconda fase di sviluppo della dittatura del proletariato: il primo atto è stato la Comune di Parigi”.

I comunardi morirono a uno a uno, combattendo sulle barricate (il protagonista del mio romanzo cade tra gli ultimi in rue Lepic) o – se prigionieri – barbaramente trucidati dagli sgherri di Thiers durante la semaine sanglante. Nello stesso tempo, la borghesia, rientrata a Parigi, si diverte nei caffè e nei bordelli, insieme a molti scrittori e intellettuali, osservando compiaciuta il massacro di massa che avviene davanti ai suoi occhi. Nessuno purtroppo, nel resto d’Europa, intervenne a fianco dei Comunardi, come avvenne con le Brigate internazionali durante la Guerra civile di Spagna (e in questo caso è lecito pensare che per molti la fine della Comune fu un monito a favore dell’adesione ai repubblicani). Il governo della Comune fece appello perfino a Garibaldi affinché prendesse il comando delle operazioni militari, ma Garibaldi dovette rinunciare per ragioni di età, lasciando partire un pugno di garibaldini.

“La Comune – ha sintetizzato Marx ne La guerra civile in Francia (1870-1871) – pretendeva di abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di tutti la ricchezza di pochi. Essa mirava a espropriare gli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, oggi essenzialmente mezzi di asservimento e sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato”. Il lavoro di tutti, la ricchezza di pochi.

Marx conclude il suo saggio il 30 maggio 1871, due giorni dopo la morte della Comune, ma noi siamo ancora qui a contare i sempre più ricchi e i sempre più poveri, ad aspettare molte delle riforme pensate dalla Comune, a tentare di ridisegnare in continuazione una strada per la sinistra.

 

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