Perché il Pd rischia di più

di Piero Ignazi
Nascondere le difficoltà di questo prospettato governo giallo-rosso sarebbe come celare la torre Eiffel dietro un cerino. I rischi stanno tutti nella fretta di varare un esecutivo a tutti i costi pur di frenare il ciclone Salvini. Certo, fino ad un mese fa la Lega era sulla rampa di lancio per conquistare da sola, o con l’aiuto di Fratelli d’Italia, la maggioranza assoluta alle Camere. Un risultato del genere avrebbe provocato uno spostamento a destra dell’asse politico non solo italiano ma europeo, gravido di conseguenze internazionali. I rubli che tintinnavano tra gli emissari filo-russi di Salvini , e di cui abbiamo avuto conoscenza grazie alla manina di qualche servizio segreto occidentale (o persino dei russi stessi, infastiditi da tanto dilettantismo), non potevano essere accettati nell’area Euro. Quel pericolo però si era ridimensionato dopo la sferzante requisitoria di Giuseppe Conte contro il suo vicepremier in Senato (un inedito assoluto nella storia repubblicana). Quella scena, vista da 15 milioni di italiani (un altro inedito) intaccava il consenso alla Lega: troppo umiliante per lasciare intatta l’aura di leader vincente a Salvini. Per questa ragione, quelle elezioni, che sarebbero state una sciagura fino ad allora, diventavano una contesa aperta. Con un Pd forte della sua opposizione e perno di una coalizione anti-Lega, e un 5Stelle rinserrato dietro il suo nuovo leader (a dispetto della ritrosia stucchevole di Conte).
Ad ogni modo, quello scenario non è più d’attualità. Ma se si ripresentasse a breve scadenza porterebbe ad una vittoria ancor più schiacciante la destra. Quindi, a questo punto, la locomotiva del nuovo governo non può che mettersi in marcia e durare un tempo tale da modificare le preferenze elettorali degli italiani. Purtroppo i primi passi non sono benauguranti.
Ed era da prevederlo perché Pd e M5S si sono, da sempre, ferocemente combattuti. L’unico momento di appeasement si registrò dopo le elezioni politiche dello scorso anno quando il M5S propose al Pd di incontrarsi per formare un governo sulla base dei punti di convergenza tra i programmi dei due partiti. La risposta sprezzante del segretario dimissionario del Pd, Matteo Renzi, mandò a monte l’incontro. E da allora parlare di un rapporto con i 5Stelle è stato tabù nel Partito democratico. Poi Renzi ha cambiato idea. Troppo tardi, però. Il danno era stato fatto perché il sodalizio governativo con la Lega aveva progressivamente curvato il M5S verso destra – anche a dispetto degli orientamenti del suo elettorato che si è sempre posizionato più a sinistra che a destra. E ora, d’un tratto, senza aver coltivato nessun terreno di intesa ma essersi radicalmente contrapposte, le classi dirigenti dei due partiti devono sia stilare un programma di legislatura sia convincere i propri sostenitori della bontà del loro progetto. Un doppio salto mortale.
Questa operazione comporta molti più rischi per il Pd che per i 5Stelle. Questi ultimi non hanno alcun problema con la loro base che segue sempre obbediente (il voto su Rousseau non darà sorprese) e possono eventualmente tornare da Salvini, un vero innamorato inconsolabile. Il Pd invece ha un seguito molto più critico e assai meno disposto a “cambiare verso” in poche settimane, soprattutto se la presenza nel governo e i primi passi non avranno una netta impronta di discontinuità. Fin qui Zingaretti ha ceduto quasi su tutto pur di togliere ostacoli al governo: ha rinunciato pure ad avere un vicepresidente del Consiglio. Il costo di una politica di basso profilo rischia di essere altissimo: se l’esecutivo non sarà più rosso che giallo, e soprattutto non sarà efficace, il Pd si ritroverà ai margini del sistema partitico italiano. Perché non avrà più armi in mano per combattere. Un conto era guidare una campagna elettorale “antipopulista e antigovernativa”, un conto doversi giustificare di una responsabilità governativa di cui non aveva nemmeno le redini. Senza pensare a chi , nel partito, non aspetterà altro per rimettere in discussione tutto. Il Pd di Bersani si svenò nel sostenere Monti; Zingaretti rischia almeno altrettanto, se non imprime il suo marchio.
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