Pd e M5S, più convenienza che convergenza.

Lo scoop del Foglio sui Cinque Stelle che cambiano i programmi a seconda della convenienza può avere conseguenze imprevedibili. Nel senso che testimonia il trasformismo del movimento fondato da Grillo e oggi gestito da Di Maio. Un trasformismo volto alla conquista della “stanza dei bottoni”, unica carta che il candidato premier può spendere per consolidare il suo potere all’interno di un partito/non-partito tutt’altro che coeso sulla strategia filo-governativa. Tuttavia la coperta è sempre troppo corta. Nel momento in cui i Cinque Stelle accettano da un’ora all’altra il pacchetto completo (Nato, Unione Europea, moneta unica), secondo la dichiarazione di Di Maio dopo il colloquio con Mattarella, essi compiono un passo avanti verso l’area del governo, ma al tempo stesso creano una lacerazione con chi li ha votati in base ad altri presupposti, primo fra tutti il culto della Rete, l’infallibilità del web. Con ogni probabilità è uno scotto da pagare; ma occorre adesso intravedere un punto d’approdo, altrimenti la sigla votata dal 32,5 per cento degli elettori si troverà in mezzo al classico guado: troppo lontana da entrambe le rive e annaspante.

Non è un caso se da qualche giorno, un passo dopo l’altro, Di Maio e i suoi amici guardano verso il Pd. E certo non è casuale se anche il vertice del Pd, pur fra mille cautele, ricambia questi primi segnali senza l’intransigenza delle scorse settimane. Per ora non si capisce con esattezza su cosa dovrebbe avvenire un’eventuale convergenza, dato che i temi suggeriti da Martina (lotta alla povertà, lavoro, famiglia) sembrano ancora generici. Eppure s’intuisce la reciproca convenienza. I Cinque Stelle devono gettare in fretta le ancore in un porto, tanto più dopo le giravolte sulla politica estera; e il Pd ha bisogno di uscire in qualche modo dal vicolo cieco dell’opposizione pregiudiziale a qualsiasi governo.

Detto questo, il cammino è ancora lungo. L’intervento di Gentiloni in Parlamento sulla crisi siriana e le armi chimiche ha confermato la distanza fra le forze che hanno prevalso il 4 marzo. I Cinque Stelle, nel solco della conversione di cui abbiamo detto, condividono nella sostanza la posizione del presidente del Consiglio (in cui c’è la condanna dell’illusione “sovranista”). La Lega ovviamente è critica, sia pure senza toni oltranzisti, e condanna la “russofobia”. È evidente che la divaricazione è tale da rendere impensabile – e non da ieri – un esecutivo Di Maio-Salvini. Se è vero che esistono ormai due Europe in tensione fra loro, parole del presidente francese Macron a Strasburgo, si deve riconoscere che la frattura attraversa la politica italiana come mai in passato. L’Europa di Orban e quella di Visegrad, da un lato, e quella classica, fondata sull’asse franco-tedesco, dall’altra. Salvini con il primo fronte; M5S, Pd e Forza Italia con il secondo. Solo che il vecchio motore Berlino-Parigi perde molti colpi. E il rischio è che il vuoto di potere in Italia venga usato per scaricare sull’inconcludenza di Roma la responsabilità della paralisi.

Certo, i Cinque Stelle, con l’entusiasmo dei neofiti, ieri hanno applaudito Macron che parlava di “sovranità europea”. Fanno ogni sforzo per rendersi accettabili. Ma il sentiero verso un’intesa M5S-Pd resta a dir poco accidentato. Dovrà avere un carattere istituzionale e non potrà tradursi in una vera maggioranza politica anche perché i numeri parlamentari sono insufficienti. Il lavoro di Mattarella per certi aspetti è appena agli inizi.