Parlamentari, libertà o fedeltà?

Come evitare i frequenti “cambi di casacca”, fermo restando il rifiuto del mandato imperativo fissato in Costituzione

Alzi la mano chi ricorda una stagione o una legislatura della storia repubblicana più confusa dell’attuale sul piano delle alleanze, delle maggioranze governative, delle fedeltà ai programmi elettorali e ai proclami identitari. Ci sono quelli che, a ogni occasione, chiedono voti “contro le destre” e poi ci governano insieme, quelli che “mai col partito di Bibbiano” e poi progettano un’alleanza strutturale con il medesimo, quelli che erano fieri avversari delle élite europee e poi sono diventati pretoriani del governo Draghi. Si potrebbe continuare a lungo. Eppure, è proprio questa la stagione nella quale si pensa di portare a segno l’offensiva più decisa contro la libertà dei parlamentari nell’esercizio del loro mandato. Certo, non è in questione il divieto di mandato imperativo fissato dalla Costituzione, ma la recente – e discussa – riforma che taglia i parlamentari di Camera e Senato impone una revisione dei regolamenti: lo strumento attraverso il quale si tenterà di scoraggiare, in una certa misura di punire, i “cambi di casacca”.

La legislatura dei record

Dal 2018 a oggi, secondo Openpolisa legislatura non ancora completata, hanno cambiato casa politica 143 deputati e 70 senatori (qualcuno protagonista di più di un trasloco da un gruppo all’altro) dando vita nel complesso a 302 cambi di casacca. Nell’imminenza dell’elezione del presidente della Repubblica, tra dicembre 2021 e gennaio 2022, sono stati 31 i cambi di gruppo. Ma la legislatura che detiene, almeno per ora, il record dei cambi di casacca parlamentari è la diciassettesima (2013-2018): sono stati 569 i cambi di gruppo compiuti da 348 parlamentari. Il fenomeno alimenta un diffuso sentimento di sfiducia nei confronti della democrazia rappresentativa, che finora ha prodotto qualche terremoto elettorale (i più vistosi con i consensi raccolti nel decennio passato da una forza nuova e per certi versi improvvisata come il M5S), una tendenza apparentemente inarrestabile alla crescita dell’astensionismo, una crescente assuefazione rispetto a soluzioni politico-istituzionali nate al di fuori dei partiti politici e del Parlamento.

In principio fu Scilipoti

Nella cosiddetta prima Repubblica, il vincolo ideologico, i legami sociali, la credibilità complessiva dei partiti come pilastri della democrazia hanno garantito a lungo la tenuta dei gruppi parlamentari. Il fenomeno storicamente più rilevante era quello delle scissioni: la prima, quella dei socialdemocratici nel 1947, mentre erano ancora in corso i lavori della Costituente. Rotture collettive, traumatiche, che si consumavano su grandi scelte ideali e strategiche.

Cambio di scena, ed eccoci nel 2010: Domenico Scilipoti, deputato di Italia dei valori, il partito antiberlusconiano per antonomasia, che salvò – insieme ad altri – il governo di Silvio Berlusconi dopo la rottura con Gianfranco Fini. Fondatore dei “Responsabili”, passato in tempi successivi a Forza Italia, è diventato il simbolo dei “voltagabbana”, offrendo un contributo non trascurabile al citato sentimento di sfiducia popolare. Solo una lettura estremamente superficiale della crisi dei partiti e della democrazia parlamentare, tuttavia, potrebbe ridurre il fenomeno dei cambi di casacca a un problema di avventurismo personale degli eletti, a caccia della posizione migliore per godere dei privilegi della “casta”.

Disincentivi o sanzioni? La bozza del Regolamento del Senato

Il 18 gennaio scorso, la Giunta per il Regolamento del Senato ha adottato un testo base sul quale palazzo Madama lavorerà per varare la versione definitiva delle norme da adottare in vista della prossima legislatura. La bozza si spinge parecchio più in là rispetto al semplice contrasto delle manovre parlamentari per la creazione di nuovi gruppi, mai comparsi sulla scheda elettorale.

L’esempio più significativo è quello dell’articolo 13, comma 1-bis, che recita: “I componenti del Consiglio di Presidenza che cessano di far parte del Gruppo al quale appartenevano al momento dell’elezione decadono dall’incarico, salvo il caso, per il Presidente, dell’esercizio delle funzioni di cui all’articolo 86, primo comma, della Costituzione. Tale disposizione non si applica quando la cessazione sia stata deliberata dal Gruppo di provenienza, ovvero in caso di scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari”.

In sostanza, i principali incarichi parlamentari (incluso il presidente del Senato, fatta salva la citata funzione costituzionale di supplenza del capo dello Stato) diventano un patrimonio dei partiti rappresentati nei gruppi, e non l’espressione del libero orientamento dell’assemblea che ha eletto i senatori a quella determinata funzione. I senatori che lasciano il gruppo di appartenenza perdono risorse e collaboratori: una previsione che sembra avere poco a che vedere con la proclamata intenzione di scoraggiare la proliferazione dei gruppi parlamentari o il mercato degli eletti. Più che altro, una vera e propria sanzione per una scelta che la Costituzione considera libera. Norme analoghe sono previste per posizioni di minor rilievo, come quelle dei componenti della Giunta del regolamento e per quelle delle elezioni e immunità, oltre che per i membri degli uffici di presidenza delle commissioni.

Alla Camera qualcuno si ricorda dei partiti

Varata successivamente a quella del Senato, la bozza di nuovo Regolamento, elaborata a Montecitorio, brilla (nel confronto, almeno) per la ricerca di soluzioni meno estreme e per il fatto che i componenti della Giunta si sono ricordati dell’esistenza del cosiddetto Paese reale. Nella norma “punitiva” per i membri dell’ufficio di presidenza che cambiano gruppo, si è almeno risparmiata la figura del presidente dell’assemblea: carica ricoperta in passato da personalità del calibro di Giovanni Leone, Sandro Pertini, Pietro Ingrao e così via, che si fa fatica a immaginare sottoposte a una rigida disciplina di gruppo. Quindi la decadenza dall’incarico scatta, secondo l’ipotesi di nuovo comma 7 dell’articolo 5, solo per i vicepresidenti e i segretari “che entrano a far parte di un Gruppo parlamentare diverso da quello al quale appartenevano al momento dell’elezione”. Esclusi dalla tagliola, parrebbe, anche i deputati questori, che ricoprono compiti istituzionali particolarmente delicati.

L’aspetto più interessante compare però all’articolo 15, quello che fissa le regole per la costituzione di gruppi parlamentari o, in mancanza dei numeri necessari, delle componenti del gruppo misto.Laddove il Senato considera in sostanza congelata la soggettività politica ai partiti reali o virtuali presenti sulla scheda elettorale nell’ultima tornata (di fatto fin dal regolamento vigente, frutto di una rielaborazione nata sotto la presidenza di Pietro Grasso), alla Camera si ipotizza di riconoscere formazioni nuove che manifestino la loro esistenza anche fuori dai palazzi. Sia nel passaggio sui gruppi (almeno 14 deputati) sia in quello sulle componenti (almeno sette) viene aperto uno spiraglio a formazioni che “rappresentino, in forza di elementi certi ed inequivoci, un partito o un movimento politico organizzato nel Paese anche formatosi successivamente alle elezioni”. È un’affermazione di principio che certamente rischia di rimanere sulla carta: sugli “elementi certi e inequivoci” decideranno le maggioranze, e sappiamo che non sempre nelle aule parlamentari il diritto riesce a prevalere sulle convenienze politiche, ma è uno sprazzo di realismo e di cultura democratica che, di questi tempi, non può che sorprendere e forse anche confortare.

Il vincolo di mandato

Per anni il Movimento 5 Stelle – non da solo, va detto, ma con più determinazione di altri – ha lanciato vere e proprie campagne, in qualche caso virulente, contro i suoi parlamentari che lasciavano i gruppi, o ne venivano espulsi per le ragioni più varie. La linea ufficiale era che chi era stato eletto nel M5S avrebbe dovuto dimettersi anche dal parlamento, una volta consumata la rottura. Sono le voci di Beppe Grillo e dei suoi quelle che hanno più spesso criticato l’articolo 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ufficialmente, nessuno spinge più per modificare la Carta in questo punto. Le modifiche regolamentari non possono certo essere considerate un atto eversivo, tuttavia è difficile negare che la creatività del legislatore sta ronzando attorno a principi sui quali sarebbe il caso di riflettere con la massima cautela.

Secondo la Treccani online, la rappresentanza nazionale e il divieto del mandato imperativo sono “il fondamento teorico della rappresentanza politica moderna e del costituzionalismo liberale”. La voce dedicata al tema cita dodici Carte costituzionali, da quella francese del 1791 a quella svizzera del 1999. Secondo Fausto Cuocolo, quotato studioso del secolo scorso, l’articolo 67 della Costituzione “impedisce l’adozione a carico dei parlamentari disobbedienti o dissenzienti, quale che sia il grado del dissenso, di qualsiasi provvedimento, rilevante nell’ordinamento costituzionale (…)”. Si può legittimamente sospettare che la decadenza da un incarico parlamentare, ipotizzata nel testo che il Senato dovrà esaminare, abbia per l’appunto una qualche rilevanza. Chi ha a cuore i delicati equilibri della democrazia repubblicana ha l’occasione per provare a non far passare sotto silenzio questo passaggio istituzionale apparentemente minore.

 

 

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