Nuova luce su Lorenzetti.

Non sarà più solo l’autore degli affreschi che nel Palazzo Pubblico di Siena rappresentano il Buono e il Cattivo Governo. Ambrogio Lorenzetti eseguì il notissimo ciclo nel 1338-1339 su commissione dei Nove. Ed è un manifesto nel quale la raffigurazione della minuta vita quotidiana è sovrastata dalle Virtù, che attorniano un vegliardo in veste di giudice: il Comune stesso, il «bene comune» in carne e ossa, per sottolineare che il principio basilare da seguire era la Giustizia. A fronteggiare la visione concreta della città operosa e festante in pace si squaderna una città devastata da «guerre, rapine, tradimenti e ’nganni», in preda alla Tirannia e al Terrore. La politica deve scegliere tra queste alternative. Una temperatura dantesca avvolge l’opera geniale di un artista, i cui costumi furono «più tosto di gentiluomo – scrisse Giorgio Vasari – e di filosofo che di artefice». Questa fama di letterato col pennello, di «pittore dotto» e di «famosissimo e singolarissimo maestro», secondo le parole di Lorenzo Ghiberti, ha conferito ad Ambrogio una statura filosofica, una funzione di «pittore civico» per eccellenza ed ha messo in ombra la sua audace varietà di interessi. La mostra a lui dedicata che s’aprirà il 20 ottobre al Santa Maria della Scala alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è curata da Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini e Max Seidel e offre finalmente la possibilità di esaminare, riuniti in contiguità, lavori che, pur allocati già per la maggior parte nel senese, acquistano ora una mirata evidenza critica. Era assurdo che non fosse stata ad oggi organizzata un’ambiziosa mostra monografica. Anche il volume del 1958 su Ambrogio dell’americano George Rowley è titolo del tutto inadeguato, avaro e zeppo di imprecisioni. I prestiti vengono da Asciano (collezione Salini) e dalla londinese National Gallery, dal Louvre e da Montalcino, da San Casciano Val di Pesa, da Massa Marittima e da Francoforte, da Roccalbegna e da New Haven. Anche gli Uffizi hanno dato capolavori essenziali, ma purtroppo non la monumentale Presentazione al Tempio . Non mancano tavole di Duccio e del fratello maggiore Pietro che consentono momenti di comparazione. In tutto una quarantina di pezzi, ma occorre aggiungere gli affreschi da vedere dove sono ubicati, con sottomano una mappa che inviti a scorrazzare da un paese all’altro in un’eccitante caccia al tesoro. Domando a Roberto Bartalini, ordinario di storia dell’arte medievale all’Ateneo, se siamo di fronte ad una mostra o piuttosto ad un itinerario. «No, no: questa è una mostra che presenta, come non è stato mai fatto, pressoché tutte le opere mobili di Ambrogio: dipinti su tavola, affreschi staccati da tempo a finalità conservative, una piccola vetrata, una coperta dei registri di Gabella. Dunque non è un itinerario tracciato per riscoprire elementi già fruibili. Certo i visitatori saranno accompagnati nella basilica di San Francesco e a Sant’Agostino, a centellinarsi quanto rimane di quelli, restaurati per l’occasione, che in antico furono i più celebri affreschi di Ambrogio». In ciò l’esposizione ha una sua esemplarità: conclude un programma avviato da tempo, cantieri diagnostici e di restauro che dal 2015 hanno coinvolto i luoghi dove Lorenzetti ha lasciato testimonianze cruciali della sua creatività, in particolare nella cappella rotonda di San Galgano. Ambrogio ricorreva a varie tecniche nella stesura dell’affresco e questo mix ha favorito deterioramenti e interventi di ripristino sbrigativi. Alessandro Bagnoli, funzionario della Soprintendenza e docente di restauro, è entusiasta di quanto le sinopie hanno rivelato: fantasmi che hanno ripreso corpo, linee semplificate in tensione. Dalla sinopia dell’Annunciazione di Montesiepi è spuntata fuori la sagoma del committente, un Ristoro da Selvatella, che fece cambiare un’impaginazione sgradita: del risultato finale si possono apprezzare anche le fasi preparatorie. Maria, nella versione originaria, s’aggrappava ad una colonna, spaventata dall’Arcangelo entrato d’improvviso a sconvolgere la quiete domestica.

Le Madonne di Ambrogio si sgranano in un capitolo a sé: come una poesia che, imbastita su uno stesso schema metrico, moduli il tema con diversità di toni e accenti. Basterà citare per tutte la Madonna del latte , che sorregge a stento un Bambino zampettante, mentre sembra sfuggirle di mano e rivolge ai fedeli un’occhiata da monello. Pittore filosofo, ma intento a indagare sentimenti e gesti sottraendoli al tempo caduco ed elevandoli ad una cifra sovrannaturale. Fu Ambrogio il primo a tratteggiare una tempesta con scientifico scrupolo da metereologo. E fu lui l’autore che più di ogni altro ottenne «effetti di profondità spaziale – osservò Luciano Bellosi – tra i più impressionanti di tutto il Trecento». Max Seidel, direttore emerito del Kunsthistorisches Institut, si lancia in una commossa esaltazione: «Ambrogio si può definire un artista concettuale: sovente immerge paesaggi e protagonisti in una luce metafisica, in questo alla scaturigine di una tradizione tipicamente italiana: e si badi che la sua è una luminosità speculativa». Mirabile in proposito l’affollata, rutilante «Maestà» di Massa. Ambrogio ebbe una formazione fiorentina di impronta giottesca – la prima sua opera conosciuta è, infatti, una Madonna in trono del 1319 eseguita per una chiesa appunto vicino Firenze. Poi s’incamminò per sue strade con una padronanza di mezzi e un coraggio sperimentale che non cessa di stupirci. Qualcuno dirà: perché Ambrogio e non i Lorenzetti? Le vicende dei due fratelli furono poco interferenti tra loro. Ambrogio è più avanti, spezza canoni acquisiti, sfoggia un’anarchica inventività iconografica. Ad accomunare Pietro e Ambrogio fu un identico destino di morte: entrambi furono falciati dalla peste del 1348. E il più giovane, il «perfettissimo maestro», con la moglie e le tre figlie.